Cultura

Prima della Scala 2025, camion che sfondano vetrate e “vere” torce umane infuocate: la missione compiuta di Barkhatov con la Lady Macbeth di Shostakovich

Un trionfo per il giovane regista russo che porta l'opera di Shostakovich negli anni Cinquanta, tra camion che sfondano vetrate e scene infuocate

di Diego Pretini
Prima della Scala 2025, camion che sfondano vetrate e “vere” torce umane infuocate: la missione compiuta di Barkhatov con la Lady Macbeth di Shostakovich

Un camion che sfonda a sorpresa una vetrata, due personaggi che vanno a fuoco sul palco, una autentica aggressione sessuale sul posto di lavoro vestita da quella ambiguità – così moderna – del presunto equivoco, del gioco. Vasily Barkhatov supera con applausi e qualche ovazione l’esame di maturità della Scala a 43 anni portando un’opera di quasi cent’anni fa dentro il paesaggio linguistico e visivo di oggi. Non gli servono “costumi moderni”, a volte contrastati da una parte del pubblico scaligero della Prima, perché l’idea e il lavoro sono tutto nel pensiero drammaturgico con cui ha portato in scena Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitri Shostakovich. Un’opera di cui si dice che è difficile trovarne un significato univoco. Barkhatov scavalca il quesito e rende la storia credibile e avvincente, calcando il segno su alcune chiare volontà del compositore (che empatizza, “tifa” per Katerina e non a caso le affida i numeri musicali più forti e cristallini) e riempiendo di dinamismo ogni scena, anche e soprattutto quelle strumentali o dei cori.

Barkhatov ambienta la sua Lady Macbeth negli anni Cinquanta, ironicamente (o forse no) nel periodo che porterà alla morte di Stalin, il censore di Shostakovich. La scenografia ha uno sviluppo orizzontale, diviso a metà. In una scena ci sono sopra le cucine (sono molto i personaggi secondari anche tra la servitù della famiglia di Katerina che compaiono via via), sotto la camera da letto della protagonista e del marito Zinovij e l’ufficio di quest’ultimo. In una seconda scena sotto si trova un grande salone da pranzo e sopra un balcone. Il regista sfrutta questi molti spazi tutti a vista per spingere l’opera con ritmo cinematografico, per non dire da dramma a puntate: una serie tv, insomma, e ci scuseranno subito gli esperti di lirica per questa metafora ormai un po’ logora. E però è vero che la cura registica per i dettagli fa sì che ogni attore, anche all’opposto del movimento della scena, anche nei momenti solo musicali e senza interventi dei protagonisti, riempie l’occhio e l’attenzione dello spettatore. Le parti più esplicite, che pure nella trama ci sono, sono un po’ ovattate ma non sembra per pudore o timore del contesto (la Prima della Scala, un certo tipo di pubblico, la prima serata tv). Piuttosto pare una scelta voluta: il “non detto” (sull’abuso in cucina giustificato come “presa in giro” dagli aggressori, le scene di sesso tra Katerina e Sergej) in certi casi può lasciare più margine all’interpretazione dello spettatore consapevole (e qui sì entra in gioco il pubblico della Prima che non è quello habitué della lirica).

Ad ogni modo Barkhatov con questa energia tutta giovanile – con l’avvenire dalla sua – disegna una storia di libertà e di liberazione, che non si compie fino in fondo ma che resta come icona e messaggio. Katerina vive una vita soggiogata dai comandi impartiti dal marito e dal suocero (anzi il primo sembra un fantoccio nelle mani del secondo). La accusano di non generare eredi e lei ribalta l’accusa contro il poco amorevole consorte. In cucina si consuma un’aggressione sessuale nei confronti di una cameriera, una violenza che Barkhatov “veste” con gli ingredienti alimentari: la poverina viene ricoperta di farina, di sugo, viene “lavorata” col mattarello, sculacciata. Le molestie vengono interrotte proprio dalla moglie del padrone, Katerina, che già sente crescere l’odio per il maschio che si sente tale soverchiando la donna. “Ho bisogno di affetto” canterà poco dopo “soltanto io non ho nessun che mi desideri”. Conosce Sergej, che lavora nell’azienda del marito e tutto cambia: nella sua mente vede aprirsi, quando ormai non lo sperava nemmeno più, spazi sconfinati nonostante resti poco più che reclusa. Il suocero Boris la sorprende con lui e lo frusta. Lei non ne può più e quando il suocero le ordina un piatto di funghi lei lo avvelena. Torna il marito Zinovij e Katerina e Sergej sono sorpresi a letto e seminudi. Qui il ritmo si fa quasi a perdifiato. Lui si nasconde nell’armadio, l’amante dissimula. Zinovij comincia a fare domande, lei risponde vaga. Il marito la aggredisce, tenta di violentarla, lei chiama aiuto, chiama Sergej che esce dall’armadio. Zinovij è sorpreso e di questo approfitta Katerina che lo immobilizza a letto, con uno straccio comincia a strangolarlo. Arriva anche Sergej, blocca braccia e gambe di Zinovij, Katerina prende un cuscino e soffoca definitivamente il marito. Il quale stordito chiama un prete e Sergej a quel punto lo finisce: “Eccoti il prete”. Gli preme il cuscino sulla faccia finché Zinovji non smette di respirare. I due amanti restano come scioccati ma il loro futuro insieme ora sembra assicurato.

Katerina e Sergej si sposano davanti a numerosi invitati ma nel frattempo – dopo che finora è rimasto nascosto dentro un frigo – viene scoperto il cadavere di Zinovij, il marito ammazzato. Qui arriva una prima trovata scenica di Barkhatov che può assomigliare pure a una citazione. Durante la festa nuziale i morti (suocero e marito della sposina killer) ricompaiono sottoforma di ombre e visioni: come fantasma, diafano, Boris (e ricorda un po’ il Convitato di pietra del Don Giovanni), Zinovji addirittura spuntando dalla torta nuziale (e la scena reale della festa con gli invitati si “congela”). Ad ogni modo la notizia del cadavere arriva alla polizia. “È finita” dice Katerina. “Fuggiamo” dice Sergej. I due vengono arrestati e il cambio di scena – altra idea vincente di Barkhatov – avviene con la dirompente entrata in scena di un camion militare. Letteralmente dirompente: sfonda il portone di quella che sarebbe la casa di Katerina e improvvisamente ci si ritrova nel campo di prigionia.

Il camion che distrugge la vetrata è anche una metafora efficace per sottolineare che la vita di Katerina così come l’aveva sognata va in mille pezzi. Nel campo di prigionia dove è stata portata con Sergej, la protagonista vede crollare tutto. Dagli agi della villa col marito al freddo e alla miseria del campo. In più Sergej ormai la detesta perché ha trascinato anche lui in questa catastrofe. Non basta: lui si invaghisce di un’altra prigioniera. Di più: l’ex amante si fa beffa di Katerina chiedendole soldi o capi di abbigliamento che lui regala a un’altra prigioniera. Katerina ha capito tutto, ovvero che tutto è perso, perfino l’amore che le aveva dato la spinta per il grande salto nel buio, pur di raggiungere una libertà, forse una qualsiasi. Le guardie gridano a tutti i prigionieri di alzarsi perché è ora di andare. Si tirano in piedi tutti tranne Katerina che non dà segni di vita. In realtà finge. Poco prima si è cosparsa di benzina. Dopo aver sentito la nuova amata di Sergej che la canzona (“Guarda come mi stanno bene le tue calze”) ruba l’accendino a un altro prigioniero poi fa in modo di mettersi vicino all’amante di Sergej e accende il fuoco. Muoiono insieme bruciate vive. Sul palco brillano fiamme reale, corrono impazzite due torce umane. Avviene tutto in modo rapido e necessita di una attenzione piena tanto da non essere immediatamente comprensibile se non da chi conosce bene la trama dell’opera. È un finale che non c’entra niente con l’originale (che finisce con una morte per annegamento nella “acqua nera” di un lago come da bellissimo numero solitario di Katerina) ma il pubblico della Scala resta abbagliato e si dimostra conquistato.

Oltre alle ovazioni ripetute e insistite per il maestro Riccardo Chailly per la prova d’orchestra, a ricevere gli applausi più convinti – a giusta ragione – sono stati la protagonista, il soprano Sara Jakubiak, e Alexander Roslavets, il basso che ha interpretato il suocero Boris.

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