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Tabaccaio ucciso perché si ribellò al cognato del boss: ergastoli confermati in Appello ma cade l’aggravante mafiosa

Al termine del processo di secondo grado, i giudici hanno disposto il carcere a vita per il mandante Franco Polimeni e per il killer Francesco Mario Dattilo. Condannati anche gli altri due imputati.
Tabaccaio ucciso perché si ribellò al cognato del boss: ergastoli confermati in Appello ma cade l’aggravante mafiosa
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In Appello non ha retto l’aggravante mafiosa ma i due ergastoli sono stati confermati. E’ l’esito del processo per l’omicidio di Bruno Ielo, l’ex carabiniere che in pensione gestiva una rivendita di tabacchi a Gallico, nella periferia nord di Reggio Calabria, e che è stato ucciso perché non ha voluto “piegare la testa” davanti al cognato di un boss della ‘Ndrangheta. La Corte d’assise d’appello ha confermato la sentenza di primo grado del dicembre 2022 disponendo il carcere a vita sia per il mandante che perl’esecutore materiale del delitto. Si tratta di Franco Polimeni e Francesco Mario Dattilo.

Cognato del boss Pasquale Tegano, il primo è ritenuto anche lui un pezzo da novanta degli “arcoti” pur non avendo mai riportato condanne definitive per associazione mafiosa. Dattilo, invece, per la sentenza, è stato il killer che sparò due colpi di pistola uccidendo il tabaccaio mentre rientrava a casa a bordo del suo scooter. Stando alla ricostruzione della squadra mobile, l’imputato pedinò la vittima con un mezzo a due ruote mentre Polimeni seguì entrambi a bordo di una Fiat Panda ripresa dalle telecamere lungo il tragitto fatto da Ielo prima di essere ucciso.

Sulla stessa auto c’era Cosimo Scaramozzino, ritenuto l’uomo di fiducia del presunto boss Polimeni. Pure lui, al termine del processo di secondo grado, è stato condannato a 22 anni di carcere per aver partecipato all’omicidio dell’ex carabiniere. In primo grado aveva rimediato una pena più pesante (30 anni di reclusione) ma è stata rideterminata dalla Corte d’Appello che lo ha assolto per il reato di estorsione.

Accusa, questa, che è caduta anche per il quarto imputato, Giuseppe Antonio Giaramita che, nel primo processo, era stato condannato a 15 anni di carcere. Oggi sono diventati 9 anni e 8 mesi solo per il tentato omicidio. Alcuni mesi prima dell’agguato mortale, infatti, durante una rapina ai danni dello stesso Ielo l’imputato gli aveva sparato un colpo di pistola in bocca. Gravemente ferito, neanche quell’episodio ha fatto desistere la vittima che, nonostante le minacce subite, non aveva mai abbassato la testa davanti a Franco Polimeni che aveva la sua attività commerciale a poche centinaia di metri dalla sua.

Da qui l’accusa di estorsione contestata dalla Dda di Reggio Calabria e per quale sono stati condannati Polimeni e Dattilo. Entrambi, per i magistrati, avrebbero compiuto “atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere Ielo e la figlia a chiudere, o comunque, diminuire il volume di affari della rivendita”. Tra 90 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza e solo allora si capirà perché, nonostante gli ergastoli, secondo la Corte d’Assise d’Appello l’aggravante mafiosa non ha retto nel secondo processo. La dinamica resta così come il fatto che Bruno Ielo è stato freddato come un boss. Ma non lo era. Piuttosto, come ha affermato il procuratore aggiunto Stefano Musolino nel primo processo, Ielo era “un semplice e onesto tabaccaio” che, da solo, aveva messo in discussione il ruolo e il prestigio di uno dei più importanti casati di ‘ndrangheta.

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