La rivoluzione non è un pranzo di gala. Lo dicevano Mao e pure Sergio Leone. Da qualche giorno abbiamo capito che ce lo vuole raccontare anche P.T Anderson con Una battaglia dopo l’altra. Magari in maniera più stilosa, leziosa, morbidamente intimista. Tanto perché oggi al cinema per essere filosoficamente indie (perché materialmente c’è Warner che sgancia 120 milioni di dollari di budget) bisogna fare, disfare, montare e rimontare, un groviglio di ribellione politica simil woke e molto antiwasp (ecco la “rivoluzione”), tendenzialmente ed esteticamente pop e figa. Una battaglia dopo l’altra è, a livello di messaggio, prima di tutto una semplificazione dicotomica tra male (vecchi maschi, bavosi, violenti, razzisti bianchi) e bene (donne nere col mitra e la cazzimma), impostato su un’imponente struttura action thriller raramente sfiorata dal P.T.Anderson avvezzo solitamente a minimalismi da camera, college e laboratorio di cucito. Se la si prende da questo verso Una battaglia dopo l’altra è fisicamente un’opera monumentale. Una rutilante macchina da guerra, pardon di lotta armata, in una livida invernale funerea California, tra un manipolo pulviscolo quasi astratto di rivoluzionari con mitragliette e bombe capitanato da Perfidia (Teyana Taylor, direttamente da un blaxploitation) e Ghetto Pat (Leonardo DiCaprio oramai fisso con la fronte corrucciata), e un colonnello dell’esercito muscoloso, fesso, cattivo e arrapato, tal Lockjaw (Sean Penn al limite della burletta).
Al centro, almeno all’inizio (e poi quando DiCaprio fuggirà nuovamente a metà film, quindici anni dopo), sottotraccia c’è la migrazione clandestina messicana negli Stati Uniti. E il primo gesto, per far capire che nonostante l’ambientazione del primo blocco del film sia ipoteticamente nei primi anni duemila, questo è un film che parla e si aggancia come uno skilift a Trump e al Maga, è l’assalto ad un campo migranti e relativa messa in scacco delle autorità militari. Tra i rivoluzionari ci sono appunto Perfidia che fa arrapare Lockjaw ammanettato e Ghetto Pat, bombarolo molto goffo.
Le azioni di sabotaggio, gli assalti e gli attentati alle banche si susseguono con un ritmo di montaggio vertiginoso e un commento sonoro accattivante nella sua cacafonia di Jonny Greenwod. Per almeno un’ora Una battaglia dopo l’altra pare davvero una leccornia scartata con cura per una multisala da popcorn. Solo che P.T.Anderson, come tutti i cineasti che si sentono elettivamente postmoderni, non può correre sui binari di una generica linearità. Così la lotta armata scivola in secondo piano rispetto alla crescita di Willa (Chase Infiniti in una performance grintosa), la piccola figliola avuta da Perfidia con DiCaprio (forse) che alla scomparsa di mamma cresce in clandestinità con papà oramai rintronato di birre e canne. Sulle loro tracce si è però messo Lockjaw che, per poter entrare in una società massonica segreta modello Ku Klux Klan (i Pionieri del Natale, sic), devasta mezza America meridionale pur di cancellare quelli che si presume siano i segni della colpa (Willa) di un meticciato non gradito nel club.
Una battaglia dopo l’altra quindi, attorno all’ora e mezza comincia a rallentare, anzi quasi si ferma verso un’ultima mezz’ora che prima attraversa una parentesi di confine (lasciamo stare il vacuo inserimento del personaggio di Benicio Del Toro) e poi si disloca in un lungo inseguimento/duello tra larghe cunette di infinite autostrade nel deserto tra una mezza dozzina di auto e di personaggi. Un’ultima parte classicamente risolutiva e rassicurante che deve tutto al debito che ogni cineasta statunitense ha con il western di Ford qui in versione Strada a doppia corsia di Monte Hellman. Insomma, Una battaglia dopo l’altra è molto meccanismo e ipotetica emozione, con rappresentazione del potere e contropotere che bussano alle porta della farsa. Ispirato alla lontana a Vineland, quarto romanzo di Thomas Pynchon. Se nessuno ci viene a cercare scriviamo che l’unico momento in cui DiCaprio recita da Dio è negli ultimi cinque minuti di film quando chiacchiera calmo con Willa e ceca di farsi un selfie con il flash.