Milano riparte dai nuovi creativi. Nel giro di 24 ore la Fashion Week ha messo in scena due primi atti diversissimi e attesissimi: la “première” di Demna per Gucci e il debutto di Simone Bellotti alla guida di Jil Sander. Due modi opposti di leggere l’heritage: uno dichiaratamente spettacolare, l’altro chirurgico; entrambi, però, lucidissimi nel prendere posizione sul futuro.
Il coup de théâtre di Demna da Gucci
Tutti aspettavano una sfilata, hanno trovato un cinema. Per il suo attesissimo debutto da Gucci, martedì sera, Demna ha scelto di sovvertire ogni regola. Niente passerella, ma una première cinematografica alla Borsa di Milano per il fashion film “The Tiger“, che è insieme manifesto e guardaroba, con i look del nuovo corso addosso agli attori (costumi di Arianne Phillips). Prima ancora, una capsule e la campagna “Gucci: La Famiglia” scattata da Catherine Opie – che Demna definisce “il Rembrandt del nostro tempo” – avevano messo in chiaro l’impianto: rielaborare i codici storici della maison senza mitizzare un’unica era. “Amo che la storia di Gucci non sia dominata da uno stilista solo. Non è soltanto un brand, è un movimento culturale”, dice rilassato. In video e in sala sfilano archetipi di “Gucciness”: valigeria monogram e “L’Archetipo”-baule; lamé notturni con l’eco di Tom Ford; flora e romanticismi alla Michele; una certa opulenza luminosa che ricorda Frida Giannini; e, naturalmente, il mestiere di Demna su volumi e silhouette. Non è un taglio netto, è un remix intelligente: più giovane, più ironico, con punte di sarcasmo sul potere dell’1% di paperoni mondiali che il corto restituisce benissimo. “Sono cresciuto guardando le sfilate di Tom Ford su Fashion Television, da ragazzino in Georgia”, confessa. “La Famiglia era un buon modo per tornare alla narrazione di Gucci: tornare al futuro passando dal passato”. La vera sfilata arriverà a febbraio; intanto, tra cambio ai vertici, trimestrali in sofferenza e aspettative globali, il brand sceglie di ripartire rimettendo in circolo i propri miti, invece che bruciarli.

La risposta silenziosa di Simone Bellotti da Jil Sander
Se Demna accende i riflettori, Simone Bellotti da Jil Sander abbassa la voce e affila la linea. Il designer brianzolo – formazione fra Anversa e Milano, passaggi da Ferré, D&G, Bottega, Gucci e la direzione creativa di Bally – costruisce un debutto che è dichiarazione di metodo: essenzialità, tagli netti, rigorosa economia dei segni. “Puro era una parola che lei ripeteva sempre”, ricorda a proposito di Jil. “Quella ricerca dell’essenza è profondamente in sintonia con me”. In passerella, il minimalismo torna assertivo: tailoring scolpito, superfici compatte, color-blocking di neutri con squilli calibrati di rosso, blu elettrico, viola; dialogo continuo tra guardaroba maschile e femminile; niente nostalgia, nessuna forzatura. La rivoluzione è silenziosa ma percepibile nella mano: proporzioni raddrizzate, volumi pensati per muoversi, dettaglio funzionale che non chiede didascalie. Buona la prima: più che un reboot, un riallineamento delle coordinate Jil Sander al presente. Il suo è stato un debutto nel segno del rispetto, un ritorno alla quintessenza del minimalismo radicale e assoluto che è il DNA della maison. “Questa continua ricerca dell’essenza, della purezza, è profondamente in sintonia con il mio gusto personale”. La sua è una collezione dove la totale rinuncia al superfluo diventa l’affermazione di stile più potente.

Il flusso vitale di Etro e il sogno narrativo di Marras
Nel mezzo, Milano continua a fare Milano. Etro, con Marco De Vincenzo, ribadisce l’identità in chiave cinetica e manda in passerella una collezione vibrante, che omaggia l’anima caleidoscopica del brand con un lessico nuovo, fresco, istintivo. Al ritmo viscerale della musica de “La Niña del Sud”, le silhouette si muovevano libere, avvolte in frange, volant e jacquard metallici, in un’esplosione di colori e artigianalità. La sua SS26 vive di contrasti: animo gitano ma taglio sartoriale, leggerezza mobile e struttura serica che dà lucentezza al tailoring; biker con frange borchiate, blouson con intarsi multicolor, jacquard metallici che riscrivono i pattern di casa. Accessori-totem – gioielli “liquidi”, cappelli in pelle laserata, borse morbide con frange e charm zoomorfi – e una palette accesa tengono insieme artigianalità e ribellione.

Antonio Marras, come sempre, racconta. Lo stilista sardo ci ha trasportati in un’immaginaria Alghero di inizio Novecento, un “paradiso terrestre” dove lo scrittore D.H. Lawrence e sua moglie Frieda incontrano tutto il circolo Bloomsbury, da Virginia Woolf a Katherine Mansfield. “Ho bisogno di una storia da reinventare attraverso effimeri indumenti“, aveva detto in passato. E così è stato. In passerella, abiti dai colori soffusi, grandi vestaglie da diva hollywoodiana, tailleur androgini e un tributo struggente al métissage, con preziosi costumi originali della tradizione sarda, come le coroncine Sennori degli anni ’30 e le camicie Busachi di fine ‘800, integrati magistralmente nei look. È teatro del cuore: patch, intarsi, drappeggi come capitoli; l’uomo e la donna nei medesimi tessuti, declinati diversamente.

Frammenti di stile: N21 e Vivetta
Alessandro Dell’Acqua per N°21 lavora sul layering, fisico e mentale. “Ho voluto rileggere le variabili estetiche del Novecento e, senza nostalgia, trasformarle in un racconto corale”, spiega. Il primo look è già un manifesto: sottoveste in chiffon con spacco che svela gonna in chiffon nero, sotto ancora uno short broccato; dal busto affiora un reggiseno ricamato. Piani su piani, epoche sovrapposte che oggi diventano sistema. Sfilano plissé rigidi ottenuti sulla duchesse, tailleur in cavallino arancio, anorak che si fanno cappe, inserti “preppy” che flirtano con memorie mod e punk. Anche l’uomo entra in scena: generi mischiati per un alfabeto contemporaneo che non chiede permesso alle periodizzazioni.

Vivetta, infine, tuffa il suo surrealismo in mare aperto con “Sirens Just Want to Have Fun”. Pirati con balloon-pants, abiti effetto squama, spugne gessate in paillettes, cavallucci in lurex, pizzi “granchio”, anemoni ricamati a canottiglia, tacchi-riccio di mare. La camicia diventa chiave di volta: tuxedo shirt che muta in abito lungo o mini; mantelle di tubini annodate al collo, in vita o sulla spalla come maxi-bag. Accessori giocosi – anelli-polpo, collane di pettini-cavalluccio, cappelli da marinaio, zeppe con rouches ondose – compongono un armadio anfibio, leggero e ironico, che fa sorridere senza perdere mestiere.
