Libri e Arte

“Aldro. Storia di un orrore perbene”: il libro che ricorda Federico Aldrovandi, ucciso a 18 anni – L’estratto in esclusiva

Michele Dalai ricostruisce il caso Aldrovandi nel nuovo libro che dà voce a chi ha amato Federico e a chi lo ha ucciso

di F. Q.
“Aldro. Storia di un orrore perbene”: il libro che ricorda Federico Aldrovandi, ucciso a 18 anni – L’estratto in esclusiva

Sono già trascorsi vent’anni dalla morte di Federico Aldrovandi, diciott’anni appena, a Ferrara, in via dell’Ippodromo. Ucciso da chi avrebbe dovuto proteggerlo e ignorato da chi avrebbe potuto intervenire, gridare aiuto. Era l’alba del 25 settembre 2005 quando una pattuglia della Polizia lo ferma e poi lo pesta a sangue, fino a spegnere l’ultimo battito del suo cuore. Accade tutto in un un’ora. E quei momenti vengono raccontati in un libro scritto da Michele Dalai e pubblicato da Compagnia editoriale Aliberti: “Aldro. Storia di un orrore perbene”, in uscita oggi, 24 settembre.

Nelle pagine di questo romanzo – l’autore intreccia le voci di chi lo ha visto, cercato, amato, e di chi lo ha picchiato, ignorato, ucciso – si attraversano le strade silenziose della città e i pensieri più intimi di chi ha incrociato il destino di quel ragazzo dai “ricci scuri come la notte”, di chi ha sentito le sue urla e ha guardato dalla finestra, di chi ha risposto a una chiamata e ha indossato una divisa.

E soprattutto di chi ha aspettato un figlio che non è tornato. Mamma Patrizia e papà Lino, cui l’autore si è rivolto per raccontare la loro drammatica vicenda umana e giudiziaria. E poi c’è lui, Federico, che cammina da solo verso casa, inconsapevole che il suo tempo stia scivolando via, veloce come il suo respiro. Per questo libro, il volto di Federico è stato interpretato da Davide Barco, la cui illustrazione caleidoscopica impreziosisce la copertina di questo romanzo che è come un pugno, forte, asciutto. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto del capitolo “Sotto casa”:

Via Ippodromo è uno di quegli infiniti luoghi della grande provincia italiana in cui ci si conosce tutti e i vicini sanno a che ora sei uscito, quando hai spento la luce e quanto costa la macchina nuova del tizio al civico 2.

In un posto così non sono contemplate tragedie e la brava gente della nazione si tiene per mano, si tiene stretta senza mai lasciare nessuno indietro.

Federico è morto in via Ippodromo.

Tra le cinque e le sei di una mattina di settembre, quando dal letto senti ogni sussurro perché il silenzio è ancora una coperta sicura, quando nessuno può evitare di ascoltare le grida, lo strazio, le botte.

Sentire il sangue.

Se percorri a ritroso i pochissimi metri dalla targa commemorativa verso via Bologna e alzi la testa, rischi di cocciare contro i balconi delle ultime case, quelle affacciate sullo slargo.

Un piccolo, involontario anfiteatro artificiale.

Si vede tutto, si sente tutto, quasi nessuno ha visto, nessuno è intervenuto.

Federico è stato pestato a morte a pochi metri da divani, salotti, televisori spenti, letti sfatti.

C’è qualcosa di terribilmente vero, di involontariamente credibile nel tentativo di depistaggio dei primi giorni, quelli in cui le forze dell’ordine accreditavano e ripetevano la versione della morte per overdose, della droga come causa del decesso.

Federico è stato ucciso dalla droga, una droga potentissima e senza possibilità di redenzione o salvezza: la droga del silenzio.

Sul corpo martoriato di Federico – colpito a manganellate, calci e pugni –, sono state rilevate cinquantaquattro ferite da trauma.

Non l’hanno ucciso, la cinquantacinquesima ferita era nascosta nel cuore che è scoppiato per la pressione, per l’impossibilità di reggere a quel massacro.

Le botte fanno rumore ma se sei drogato di silenzio non li senti quei tonfi.

Poi la vita ricomincia, via Ippodromo continua a chiamarsi così, mimetizzata per non esistere.

La targa che ricorda Federico è quasi del tutto coperta da un rampicante, la patente Federico non l’ha mai presa perché è morto lì, senza disturbare più di tanto il correre del tempo tutto uguale, le giornate identiche, la via immobile.

Eppure, se ti affacci da quei balconi, se cammini all’alba lo senti ancora.

Il silenzio, quel vuoto tremendo in cui chi c’era ancora annega, la luce fredda dei lampeggianti e un telefono che squilla a vuoto.

C’è ancora tutto lì, fermo in quel buco nero, l’unico che se n’è andato è Federico.

Lontano da questa via, da quei minuti, dal silenzio.

Non si dovrebbe morire in Via Ippodromo, massacrati dalla Polizia, ma succede.

Per il resto, basta non disturbare e fare in silenzio.

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