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Cosa direi a Giancarlo Siani se ci parlassi 40 anni dopo l’omicidio? Proverei imbarazzo per il giornalismo di oggi

Il cronista ucciso dalla camorra a 26 anni raccontava i legami tra criminalità e potere con un giornalismo di inchiesta oggi in pericolo
Cosa direi a Giancarlo Siani se ci parlassi 40 anni dopo l’omicidio? Proverei imbarazzo per il giornalismo di oggi
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Avrei imbarazzo e un’emozione di profonda vergogna se oggi incontrassi Giancarlo Siani, cronista, 26 anni per sempre, ucciso 40 anni fa da un gruppo di fuoco di un clan della camorra affiliato a Cosa Nostra. Un omicidio di mafia camorrista per fermare un cronista che riusciva a mettere insieme le tessere, ricomporre i puzzle e raccontare la metamorfosi del potere.

Ancora oggi rileggendo i suoi articoli, non solo quelli che trattano vicende di camorra e cronaca nera, sembra esista un sottotesto, un ‘non detto’ che sussurra, guida, accompagna verso qualcosa a cui non avevi pensato. Gli scritti di Giancarlo Siani erano pericolosi perché indagavano le contraddizioni, scandagliavano, descrivevano quelle saldature, le cerniere dei poteri dove criminalità, mala politica, economia e finanza predatorie e affari sporchi – allora come oggi – si uniscono determinando e condizionando la vita delle comunità.

I suoi pezzi non erano pubblicati in prima pagina sul quotidiano il Mattino ma nelle pagine dedicate alla provincia, con lunghezze e spazi variabili e quasi sempre ‘nascosti’. Articoli dalla prosa semplice, pieni di accadimenti e particolari, stile rigoroso, senza aggettivi, senza giri di parole, senza fronzoli. Fonti, verifiche minuziose e scarpe con le suole consumate.

Un giornalismo artigianale, vero, appassionato e sempre in sottrazione: partiva dal dettaglio dipanando la matassa e mostrando i collegamenti con altre notizie apparentemente minori e scollegate. È la forza di spiegare la realtà, tradurla e svelarne i retroscena. Stimolare il lettore, instillare interrogativi, far crescere la sete di conoscenza. Questo era il giornalismo di Giancarlo. È il ‘metodo Siani’, uno straordinario talento intuitivo nel mettere insieme fatti, circostanze, dettagli e tracciare linee di connessione. Uno sguardo calato nel dentro, partendo dal fuori. Accadeva in un’epoca in cui non esistevano internet, i motori di ricerca, le banche dati, l’intelligenza artificiale. Neppure c’erano indagini giudiziarie specializzate e scarseggiavano anche le sentenze. Con un’opinione pubblica assopita, distratta dove il vero problema per molti – allora come oggi – era il ‘traffico’.

Dice la verità il fratello di Giancarlo, Paolo Siani, che con i figli Ludovica e Gianmario ha dato vita a una fondazione che porta il nome del cronista, quando afferma: “Il ricordo di Giancarlo è vivo e sta dando frutti. Questo non può che aiutare a costruire un’Italia migliore dove memoria e impegno devono essere legati l’una all’altra, separati non hanno senso”. Ci sono anche suggestioni struggenti, connessioni da altri mondi, corrispondenze di amorosi sensi: trovarsi accanto alla Mehari verde, l’auto spoglia di Giancarlo, dove in quell’abitacolo fu freddato sotto casa dai killer della camorra la sera del 23 settembre 1985. Come non avvertire un intimo brivido nel sfiorare i tasti della Olivetti M80, la macchina da scrivere con la quale quel cronista abusivo realizzò oltre 650 tra articoli e inchieste dal 1979 al 1985. Simboli entrambi di una storia che non si è mai spezzata nonostante il sangue innocente versato. Un viaggio di legalità e memoria che racconta di un ragazzo che da grande voleva fare il giornalista.

Avrei imbarazzo e vergogna se oggi incontrassi Giancarlo Siani, cosa gli direi? Gli mentirei spudoratamente raccontandogli frottole sulla libertà di stampa, sull’agibilità professionale, sulle tutele e la sicurezza di chi si avventura nell’approfondire le notizie, sulla condizione in cui versa il giornalismo e quella dei cronisti: se non arriva il piombo, giungono via Pec querele temerarie, diffide giudiziarie, richieste di risarcimento, atti stragiudiziali. Se riesci a scampare questa trafila, ci sarà qualcuno che – improvvisamente – non ti risponderà più al telefono e alla mail. È uno stop. Non puoi trattare l’argomento, basta articoli. Le inchieste qui non si fanno. Le parole si sono svuotate, il cronista guarda ma spesso non deve vedere. Scrive e resta in superficie per sopravvivere. La realtà è piegata, distorta, imprigionata in immagini catturate da chiunque e vomitate su di una piattaforma.

Tutto somiglia a una fiction, un grande fratello dell’orrore, come a Gaza dove ci si ostina a chiamare conflitto ciò che invece è uno sterminio di civili. Certo mi guarderesti stralunato, ma ne sono certo: continueresti a pensare a quel simbolo della pace disegnato sulla tua guancia. Ne vale sempre la pena, sempre. E poi Vasco Rossi: “Ogni volta che non sono stato. Ogni volta che non guardo in faccia a niente. E ogni volta che dopo piango. Ogni volta che rimango. Con la testa tra le mani. E rimando tutto a domani”.

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