C’è un momento, entrando nella sala VII della Pinacoteca di Brera, in cui si trattiene il fiato. Accanto alla sacralità della Madonna col Bambino di Giovanni Bellini, si erge un abito da sera blu, di un’intensità quasi ultraterrena. Non è un’interferenza, ma un dialogo. Una consonanza di colori, di luce, di grazia. Due donne che sembrano guardarsi, emblema, entrambe, di una bellezza che trascende il tempo. È questo il cuore della mostra “Giorgio Armani: Milano con Amore”, che si apre oggi in uno dei templi dell’arte italiana per celebrare i cinquant’anni della maison, diventando il primo, grande omaggio postumo al suo fondatore. L’esposizione non è una semplice retrospettiva, ma un’operazione culturale audace e raffinata. 133 creazioni, tra donna e uomo, sono state collocate nelle sale del museo per creare un percorso parallelo, un “corpo a corpo” tra la storia della moda e quella dell’arte. Non ci sono forzature, ma “consonanze e analogie”, come spiegano i curatori.
Così, l’iconico completo greige destrutturato, che consacrò lo stile American Gigolò, sembra assorbire il rigore monumentale della statua di Napoleone di Antonio Canova. Un abito rosso si infiamma nella cappella affrescata da Bernardino Luini, mentre un’altra creazione vista di schiena imita la postura di un personaggio del Pitocchetto. Tra i pezzi esposti si riconoscono abiti che sono entrati nell’immaginario collettivo: c’è il completo indossato da Mia Martini al Festival di Sanremo del 1990, e l’abito con cui una giovanissima Sharon Stone si presentò agli Oscar del 1996. E ancora, un abito blu della collezione Autunno/Inverno ’98, visto indosso a Juliette Binoche a Cannes nel 2016, e una versione del vestito rosso del 1993 scelto da Katie Holmes per il Met Gala del 2008. Il tutto accanto a opere d’arte come la Pala di Brera di Piero della Francesca e il celeberrimo Bacio di Francesco Hayez. È un gioco di rimandi cromatici, materici e posturali, in cui gli abiti non sovrastano mai i capolavori, ma ne diventano un “complemento”, un’eco contemporanea.
Ma la genesi della mostra, come svelato dal direttore della Pinacoteca, Angelo Crespi, nasconde una storia di grande umiltà: “Il signor Armani non avrebbe mai avuto l’ardire di venire in Pinacoteca per esporre i suoi abiti”, ha raccontato. “Nonostante fosse un’occasione incredibile, un’istituzione che ha sempre ammirato, non si sentiva all’altezza dei quadri di Mantegna, di Raffaello, di Piero della Francesca. Aveva proprio paura”. È stata la Pinacoteca a insistere, sentendo come un “dovere” celebrare uno dei più illustri “vicini di casa” del quartiere di Brera: “Ci siamo stupiti del sentimento con cui si è avvicinato ai nostri capolavori, come se li conoscesse da sempre”, ha aggiunto Crespi, sottolineando come “il suo rigore estetico fosse anche un rigore etico”.
L’obiettivo dell’esposizione, come Armani stesso scrisse nella sua autobiografia, non è “il soddisfacimento dell’ego”, ma il “valore didattico, la testimonianza unica che puoi offrire al pubblico, ma soprattutto ai giovani creativi”. Un’idea ribadita dalla vice direttrice e curatrice, Chiara Rostagno: “Credo che molti dei giovani artisti dell’Accademia troveranno in questa mostra un sentimento di fiducia, una riserva di coraggio per affrontare la loro creatività in futuro”.
Questa celebrazione si inserisce in un progetto più ampio di rinascita e condivisione del patrimonio della maison: il lancio ufficiale di Armani/Archivio, una nuova piattaforma digitale che cataloga cinquant’anni di creazioni. Un progetto che prevede anche la “circolarità culturale” di alcuni capi storici, che verranno riselezionati e rimessi in vendita in boutique selezionate.
In attesa della sfilata che domenica chiuderà la Milano Fashion Week, la mostra a Brera rimane come il testamento più autentico di Giorgio Armani: un dialogo silenzioso tra la sua eleganza senza tempo e la bellezza eterna che lo ha sempre ispirato.