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“Grazie a don Puglisi sono diventato un uomo nuovo. Per lo Stato sono un ex testimone di giustizia, ma rischio ancora”

Intervista a Giuseppe Carini che fece il nome di mandanti ed esecutori dell'omicidio: "Mi sentii orfano quel giorno, non potevo che denunciare". E fa un appello a Meloni
“Grazie a don Puglisi sono diventato un uomo nuovo. Per lo Stato sono un ex testimone di giustizia, ma rischio ancora”
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Sono trascorsi trentadue anni da quel 15 settembre quando don Pino Puglisi, il parroco del quartiere “Brancaccio” di Palermo, venne ucciso da Cosa Nostra, ma Giuseppe Carini, ai tempi giovane volontario che denunciò i mandanti e gli esecutori dell’omicidio, ricorda ancora il corpo nudo del sacerdote steso sul tavolo della cella frigorifera dell’obitorio e continua a non avere pace per quella sua scelta di aiutare lo Stato ad arrestare i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, condannati all’ergastolo per l’uccisione del prete.

Tecnicamente, Carini, ora che è uscito dal programma di protezione, è un “ex” testimone di giustizia, ma nei fatti rischia la vita ogni giorno. Dal 1995 ad oggi, continua a essere un fantasma, con un nome e un cognome diverso, cambiando diverse località e ora che ha 53 anni rischia di dover vivere, quando andrà in pensione, in uno stato di povertà.

“Per anni chi come me – spiega Carini a “Il Fatto Quotidiano.it” – si è dovuto nascondere per non essere rintracciato dalla criminalità organizzata ha dovuto stare senza un lavoro. Lo Stato non ci ha riconosciuto i contributi, ci ha abbandonati. Mi appello alla premier Giorgia Meloni affinché ponga uno sguardo anche verso di noi che abbiamo sacrificato la vita per la giustizia”.

Parole che feriscono in questo anniversario che per Carini coincide con il ricordo di don Pino, l’uomo che gli cambiò la vita e la sua nuova esistenza.

Quando incontrò per la prima volta don Puglisi?
Era una sera come le altre. Un amico che aveva già avuto modo di apprezzare il nuovo prete mi propose di conoscerlo. Andai in sagrestia e mi trovai davanti a quest’uomo non molto alto, un po’ stempiato che raccontava a me, che ero nato a duecento metri dalla chiesa, le criticità del nostro quartiere. Mi propose da subito di dargli una mano, ma all’inizio rifiutai. A quel tempo ero molto impegnato a studiare medicina, non avevo tempo da dedicare alla parrocchia. Solo successivamente rimuginando sulle sue parole decisi di riaffacciarmi alla chiesa accettando di dedicare un’ora la settimana ai ragazzi che non frequentavano l’oratorio.

Cosa la colpì di quell’uomo?
Era mite, ma deciso a dare risposte concrete al quartiere. Per lui la Chiesa non poteva essere solo il luogo della messa e dei sacramenti. Bisognava andare oltre il sagrato. Viveva già la prossimità.

Per lei era “normale” respirare quell’aria mafiosa in cui era cresciuto a Brancaccio.
In quegli anni lì non esisteva lo Stato. C’era solo la mafia. Persino i parenti di mia madre erano legati a Cosa Nostra. Non c’era foglia che si muovesse che i Graviano non volessero. Era normale giocare, andare a mangiare una pizza con i figli di mafiosi.

Lo sguardo di don Puglisi l’ha cambiata.
E’ stato come se ci fosse un ricongiungimento familiare con la fede e con Cristo, attraverso lui. Mi scoprii un uomo nuovo, un’esperienza mai provata fino ad allora. Quando chiedevo a padre Puglisi di spiegarmi chi fosse Dio mi diceva: “Se vuoi saperlo guarda a Cristo”.

Si ricorda ancora quel 15 settembre?
Era l’unico giorno che mi ero preso una pausa dalla parrocchia. Seppi della notizia dell’uccisione del mio parroco l’indomani mattina grazie a mio fratello. Presi la Vespa e andai all’Istituto di medicina legale che frequentavo, dove incontrai il mio professore che mi consigliò di non scendere in obitorio. Lui era già passato da questa stessa esperienza con il professor Paolo Giaccone, docente di medicina legale stato ucciso dalla mafia l’11 agosto del 1982. Non lo ascoltai, andai dov’erano le celle frigorifere e vidi dallo spioncino il corpo nudo di padre Puglisi, sulla cui testa c’era una grossa benda.

Da lì la sua scelta di andare in Procura a parlare con l’allora capo Gian Carlo Caselli.
Mi sentii orfano quel giorno, ma quel percorso fatto con don Pino non poteva che tradursi nel mio impegno a denunciare tutto ciò che sapevo del quartiere comprese le minacce, le aggressioni che lui ed io avevamo ricevuto. I Graviano avevano il controllo assoluto di quella zona.

Una decisione che le ha rivoluzionato un’altra volta l’esistenza.
Sì, un altro girone infernale. Ai tempi eravamo considerati alla pari dei collaboratori di giustizia. Nemmeno le forze dell’ordine sapevano come comportarsi con noi che eravamo e siamo solo dei cittadini onesti che non hanno alcun rapporto con la criminalità organizzata. Tuttavia, io ed altri testimoni non ci siamo mai arresi e abbiamo intrapreso una lunga battaglia per avere un giusto riconoscimento dallo Stato. Oggi mi definiscono “ex” solo perché sono uscito dal programma di protezione, ma è assurdo chiamarci così. Se Cosa nostra avesse la possibilità non si farebbe scappare l’occasione di eliminarci. Vivo ancora con una falsa identità, in un luogo segreto. Mi muovo il meno possibile.

Dopo trentadue anni dall’omicidio di don Puglisi cosa si aspetta?
Ho vissuto anni da solo con il pensiero di farla finita che accompagnava le mie notti. Io come gli altri testimoni siamo stanchi. Vorremmo solo che lo Stato ci riconoscesse l’enorme contributo che abbiamo dato al Paese concedendoci di vivere la vecchiaia in maniera dignitosa. Senza essere condannati un’altra volta.

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