“I figli dell’odio” è il titolo del nuovo libro della giornalista e reporter italiana Cecilia Sala, uscito il 2 settembre per Mondadori. Si tratta di un racconto che si dipana lungo tre direttrici, tutte intrecciate tra loro: la radicalizzazione di Israele, la distruzione della Palestina e l’umiliazione dell’Iran, come recita il sottotitolo che introduce un viaggio geografico e temporale realizzato dalla reporter nel corso degli ultimi anni. Tra chi vede la speranza della pace negli occhi delle nuove generazioni, cresciute tra le bombe e quindi, appunto, “figli dell’odio”, Sala scrive: “È un circolo di violenza che funziona così: i giovani si arruolano nei gruppi armati, gli israeliani fanno i raid. Gli israeliani fanno i raid, i giovani si arruolano nei gruppi armati”.
La giornalista, specializzata in cronaca internazionale e nota al grande pubblico dopo il suo arresto in Iran lo scorso gennaio, racconta ciò che ha visto in Palestina, in Israele e in Iran. Passa da Hebron, dove un gruppo di minorenni ebree innalza uno striscione contro i matrimoni misti. Poi ancora a Tulkarem, città in cui i ragazzini palestinesi appendono ai fucili le foto degli amici uccisi e si preparano a combattere i soldati israeliani. Infine giunge a Teheran: lì Abbas piange il cugino impiccato dal regime e prova un misto di terrore ed eccitazione per il grande attacco dello Stato ebraico alla Repubblica islamica. Sono tre storie da tre Paesi diversi, ma intrecciate tra loro e raccontate con uno stile giornalistico pungente, incalzante, a tratti dirompente e satirico. Ci sono storie di ebrei nati negli Stati Uniti, come il newyorchese Gershon Baskin, che “da tutta la vita promuove le interazioni tra israeliani e palestinesi”, e di ebrei di origine statunitense come il rabbino Meir Kahane, fondatore della Jewish Defense League, che voleva invece “la deportazione di tutti i palestinesi”. “L’idea che quarant’anni dopo qualcuno in Israele possa ipotizzare una grande deportazione di cittadini su base razziale – tutti gli arabi in quanto arabi – le fa perdere il sonno”, scrive Sala raccontando la storia di una madre fuggita dai lager nazisti.
Sala attraversa quartieri maciullati dalle bombe, assiste agli asfalti divelti da bulldozer e vede giovani che invece di giocare con una palla imbracciano fucili, pronti a usarli. Si chiede perché questa generazione sia diversa dalla precedente: Faris, “un signore distinto sulla sessantina”, insegnava a suo figlio Samih “che parlarsi è utile, che la diplomazia può funzionare”, ma il ragazzo non aveva conosciuto l’entusiasmo del processo di pace, solo le sue macerie. “Della diplomazia non si fida, si fida degli M16”, scrive Sala. Samih è morto a 19 anni in un’imboscata a una pattuglia israeliana ed è diventato un eroe della resistenza palestinese, senza che suo padre ne sapesse nulla.
La reporter intervista il giornalista premio Pulitzer Ronen Bergman, che racconta come Israele non sia riuscita a frenare l’estremismo armato interno, con i coloni che si sono presi porzioni di territorio conteso. “Ai vertici la fazione secondo cui la legge è uguale per tutti è ancora maggioritaria – scrive Sala citando Bergman –, ma più passa il tempo e più i comandanti per cui un omicidio è un omicidio solo se il morto è un ebreo non vengono puniti, più i loro metodi vengono replicati e la fazione degli impuniti acquista potere”. Poi riporta le parole opposte dell’analista palestinese Imad Abu Awad, che non crede in soluzioni né diplomatiche né militari e spera in una guerra civile interna a Israele. Nell’ultimo viaggio in Iran, Sala registra alcune puntate del suo podcast Stories (prodotto da Chora Media), ma viene arrestata con l’accusa di “pubblicità contro la repubblica islamica” e condotta al carcere di Evin. Resta ventuno giorni in cella: “In cella non puoi fare niente, sono fatte apposta così: non puoi compiere nessuna azione che impegnerebbe le tue sinapsi e distoglierebbe i tuoi pensieri per un poco dalla paura che hai. L’obiettivo è spezzarti, trasformarti in un sacco vuoto, affinché possano poi riempirti con quello che tornerà loro utile”. L’unico momento di calore, rivela, è stato l’incontro con un gatto rosso: “Un persiano a pelo lungo è l’unica forma di vita non minacciosa nei miei confronti che ho incontrato a Evin”.
Il libro si presenta come un coro di voci eterogeneo che a volte sembra contraddirsi, ma mostra quanto le ragioni di ciascuno siano radicate, al punto da rendere irrealizzabile una risoluzione pacifica. A volte manca persino il riconoscimento dell’altro come essere umano, visto solo come causa dei propri problemi. È l’odio che accomuna una generazione, quella dei figli, tra le cui storie Sala si muove come la lancetta di un orologio. Non scandisce solo il tempo inesorabile di terre desolate, ma restituisce un ritratto umano, uno sguardo su un Medio Oriente in continua trasformazione.