Cinema

Elisa di Leonardo Di Costanzo: il cinema italiano intrappolato nel “novantismo” moraleggiante

Alla Mostra di Venezia, il film con Barbara Ronchi incarna un’estetica seriosa e artificiosa tipica del riflusso anni ’90: dialoghi stereotipati, simbolismi forzati e una messa in scena che sacrifica il piacere del cinema per impartire lezioni di etica.

di Davide Turrini
Elisa di Leonardo Di Costanzo: il cinema italiano intrappolato nel “novantismo” moraleggiante

C’è un virus che si aggira da tempo nel cinema italiano presente alla Mostra del Cinema di Venezia. È quello del “novantismo”, una specie di stampino formale nato nel riflusso impegnato anni novanta, una sorta di corrucciata seriosità fatta di estenuanti e artificiosi take, dialoghi gravi e seriosi, ad accompagnare inoppugnabili lezioni di etica. Elisa di Leonardo Di Costanzo (in Concorso) ne è un esempio classico. In un istituto carcerario sperimentale, immerso tra le innevate Alpi svizzere con tanti piccoli chalet angolo cucina isolati nel bosco, uno per ogni coppia di detenute, è incarcerata Elisa (Barbara Ronchi), un’assassina 35enne condannata per aver ucciso dieci anni prima la sorella drogandola e poi bruciandola viva e per aver tentato di uccidere la madre strangolandola e poi provando a bruciare anche lei.

L’arrivo del felpato e affabile criminologo Alaoui (Roschdy Zem), che nell’aula magna del carcere, davanti a pubblico e detenute, illustra la banalità del male nella foto anni trenta di un gruppo di bianchi americani che ride sotto due cadaveri di neri impiccati, significa anche l’inizio di un esperimento vis a vis tra Aloui ed Elisa. In un confortevole ufficio con vetrate sulle montagne, il criminologo cercherà di far emergere ricordi e colpe dell’assassina, in quanto la donna dopo anni ancora non rammenta e non ammette a se stessa dettagli e motivi profondi dei suoi omicidi. Seduta dopo seduta verranno ricostruite le oppressive dinamiche familiari (una volta per criticare il contesto si diceva “borghesi”), tanto che Elisa rifiuterà finalmente di incontrare il padre, che tenta puntualmente di andarla a trovarla in carcere, e giungerà ad una redenzione che vuol dire accettazione dello sconto di pena e nuova vita fuori dalla galera.

Di Costanzo srotola il compunto manuale stilistico del novantismo e gli dà nobile fondo. Ecco la temibile reiterata sequenza della camminata silenziosa – porta che si apre, soggetto in uscita, passi, soggetto attraversa ambienti differenti, soggetto rientra e la porta si chiude – o quel descrittivismo ostentatamente naturale, spurio e forzato, molto morettiano (gli gnocchi al pomodoro condivisi, il libraio che consiglia i libri alla carcerata). O ancora: i dialoghi stereotipati, buttati lì, identici per ogni attore e contesto (“lo conosci tuo fratello” (no ndr); “lo sai com’è tua sorella” (e no, se non me lo si mostra nel film non lo so ndr) affastellati per comporre generiche atmosfere plumbee e contratte.

Per non parlare poi di una specie di piano poveramente simbolico con quel contrasto tra un terrificante fuori (una realtà economico culturale da aziendina del nord est) e non si capisce quanto volontario dentro (nel carcere si passeggia all’aria aperta alpina come al parco e c’è pure un bar molto minimal chic dove Elisa serve muffin con una pinzetta a Giorgio Montanini, guardia innamorata con l’auricolare). Del resto tutto questo armamentario serve a depotenziare il piacere estetico del guardare a favore della graduale imposizione della lezione: così come fa Elisa, bisogna imparare a controllare la violenza che è presente in ognuno di noi. Sul peregrino tentativo di francesizzare il film con tonalità da dramma medio d’oltralpe (“mi esprimo meglio in francese” dice in italiano Elisa al criminologo) tacciamo per pietà di patria. Nelle sale italiane tra poche ore dopo la prima veneziana.

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