Cinema

Quel pasticcio bruttarello di Frankenstein: il film di Guillermo del Toro non convince. Peccato, ma capita anche ai più bravi

di Davide Turrini
Quel pasticcio bruttarello di Frankenstein: il film di Guillermo del Toro non convince. Peccato, ma capita anche ai più bravi

Quel pasticcio bruttarello di Frankenstein di del Toro. Capita anche ai più bravi. Prima o poi anche un film di Guillermo del Toro doveva girare a vuoto. Peccato accada in Concorso a Venezia 2025, in mezzo ad una selva di produzioni statunitensi che nemmeno fossimo a Toronto. Il film tanto agognato, inseguito, progettato dal regista fin dalla sua infanzia, deve aver perso copiosi pezzi per strada tra un rimandare produttivo e l’altro.

Tentativo monumentale di avventura gotico dark sul contrasto poetico letterario vita/morte, padre/figlio, creatore/creatura, finanche vittima e carnefice, traendolo dal celebre romanzo di Mary Shelley, Frankenstein made in del Toro è prima di tutto privo di una accattivante ed incisiva originalità creativa. Il suo “mostro”, statuina metaforica di una felice e infinita galleria del nostro, è qualcosa di talmente monodimensionale, apatico, distante, da chiedere indietro il prezzo del biglietto, pardon dell’accredito. Prima che questo particolare sfugga: se fino a ieri i mostri di Del Toro si affermavano per distinte peculiarità estetico-concettuali, qui il Frankenstein interpretato da Jacob Elordi pare un generico putrefatto Conte Orlok dal Nosferatu di Eggers.

Insomma, quella particolare “umanità” intrisa di solitudine, quella passività rispetto alla cattiveria del mondo, quella “vicinanza” sensibile da antieroe, qui latita assai. Ed è un buco nero di senso difficile da colmare. Identico discorso nel convulso overacting di Oscar Isaac, il barone Victor Frankenstein, impalpabile genitore/creatore egoista e assassino che esaspera il cliché dello scienziato pazzo fino a renderlo un pupazzo saltellante e sguaiato. Suddiviso in tre atti – un prologo nel 1856 tra i ghiacciati mari dell’artico dove si arena una nave danese e dove appaiono Viktor ferito e inseguito dall’invincibile sua creatura; il racconto della storia fin dagli inizi (l’infanzia nobile e rigida) da parte del barone; poi da parte della creatura da quando è stata “creata” nel castello laboratorio – Frankenstein procede come per vani sussulti, per vuoti continui assestamenti attorno alla smodata cieca ricerca scientifica del barone: dagli urlacci presi dal consesso accademico al continuo mulinare di personaggi (il ricco finanziatore, il fratello sfigato di Victor, la bella futura cognata) che per naturale miracolosa emulsione dovrebbero portare alla nascita del mostro con pezzi di riporto di cadaveri e complicati gingilli attivati dall’elettricità di fulmini e saette.

Solo che l’operazione, non quella chirurgica dal barone ma quella cinematografica di Del Toro, semplicemente non monta, non si gonfia, non parte letteralmente mai. Nemmeno quando tocca al mostro raccontare dal suo punto di vista la durezza della sua vita raminga, da involontario immortale, Frankenstein riesce a ricevere una scossa galvanizzante, una carezza di stile, un regalo emotivo. Il quadro si inabissa sul peso di fondali irrimediabilmente ripetitivi e la magia dell’immaginario visivo, punta di diamante del cinema di Del Toro (si guardi solo che portento è il suo Pinocchio) invece di stupire, sorprendere, sognare, sbanda moribonda su feroci lupi animati con manovelle digitali del secolo scorso. Dopo aver svuotato ogni possibile casella compositiva per due ore e mezza di film, la catarsi ritrovata del perdono filiale potrebbe gareggiare come il più scialbo finale della storia recente di Hollywood. Sull’angelo custode di Victor, in realtà statua teschio modello calaveras tenuta nella stanza da letto, traccia religiosa sbandierata dal cattolico del Toro (ma Frankenstein come Gesù Cristo chi l’ha visto?) stendiamo un pratico velo di veloci titoli di coda.

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