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“Sveglia alle 5.30, punizioni fisiche e allenamenti estenuanti. La mattina mi fratturavo l’anca e il pomeriggio mi addestravo”: parla Jackie Chan

L'attore settantunenne ha parlato dell'idolo: "Tutti volevano un nuovo Bruce Lee, ma io non ero lui, ero l’opposto"

di F. Q.
“Sveglia alle 5.30, punizioni fisiche e allenamenti estenuanti. La mattina mi fratturavo l’anca e il pomeriggio mi addestravo”: parla Jackie Chan

Un prestigioso riconoscimento per Jackie Chan, che ha vinto il premio Pardo alla carriera al 78º Locarno Film Festival. Lo scorso 9 agosto, l’attore si è presentato sul red carpet con due peluche a forma di panda, elargendo selfie e autografi ai fan. Poi ha ricevuto il riconoscimento nella cerimonia che si è tenuta in Piazza Grande. L’attore, oggi settantunenne, ha raccontato gli inizi della sua carriera a La Stampa: “Mio padre mi ha iscritto alla Chinese Academy of Performing Arts di Hong Kong. Avevo sei anni mezzo e mi piaceva fare a botte, mi sembrò un bel posto. Ho trascorso tanti anni in quella scuola, a una rigidissima disciplina: sveglia alle 5,30, punizioni fisiche se non osservavi le regole o sbagliavi, estenuanti esercizi di arti marziali. La mattina mi fratturavo l’anca e il pomeriggio mi addestravo, un’abitudine a sopportare il dolore che poi nel cinema mi è stata utile”.

Il mondo voleva che Jackie Chan diventasse l’erede di Bruce Lee (i motivi della morte), ma lui aveva altri obiettivi. “Ho passato 15 anni a cercare di essere riconosciuto come un buon attore e non soltanto un buono stuntman. Volevo essere il Robert De Niro asiatico. Ho lavorato mesi a singole scene. Molti grandi studi ora non fanno film, ma business. Per questo è difficile fare bei prodotti adesso. Di Chaplin e Keaton condivido il perfezionismo: il pubblico non sa perché un film è buono, ma sa quando è buono”, ha poi aggiunto. Proprio Bruce Lee, però, è stato importante per la sua carriera, ricorda Jackie Chan: “Ero piuttosto bravo tanto che sono finito sul set di Bruce Lee. Dopo avermi colpito e fatto volare contro una vetrata per ben quattro volte, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha chiesto: ‘Tutto ok?’. La sua scomparsa è stata un grande colpo per i suoi fan e per quel genere di cinema di cui era star assoluta”.

E poi ha aggiunto: “Tutti volevano un nuovo Bruce, ma io non ero lui, ero l’opposto. Non avevo la sua incredibile velocità, le mie pratiche di combattimento erano diverse. Non volevo essere una sua copia, volevo essere me stesso. Ho lavorato duro per conquistare la mia autonomia, ma alla fine ce l’ho fatta. Da ‘The Young Master’ in poi ho potuto scrivere, dirigere, coreografare, montare i miei film come volevo. In Usa girano le scene d’azione pum pam e via: ma così non funziona. Per creare interesse, una sceneggiatura deve spiegare le motivazioni di chi combatte; e perché le sequenze di lotta non siano noiose devono avere un ritmo musicale. Io le coreografo a passo di danza e questo richiede mesi di prove e lavorazione”.

Il momento chiave è stato grazie al film ‘Rush Hour’: “Il merito è del regista Brett Ratner che mi ha affidato ideazione, coreografia e direzione delle scene action. È stato come costruire un ponte fra Cina e Usa: incontrando Spielberg per cui ho una venerazione mi stavo per prostrare, ma lui mi ha detto: ‘Potrei avere un autografo per mio figlio?’. E poi ha concluso, parlando degli anni da regista: “Quando ero stuntman, utilizzavo le pause mettendomi a disposizione gratis del tecnico delle luci, dell’operatore, dell’uomo del dolly. È così che ho appreso quanto c’era da sapere: per avere il controllo del set devi sapere tutto“.

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