“Gli stadi erano vuoti, e gli applausi si erano dissolti nell’aria estiva, eppure qualcosa, sotto la superficie, continuava a vibrare. La musica aveva firmato un patto con la realtà, e per un attimo sembrò che il mondo intero avesse saputo parlare la stessa lingua”.
Quando le luci del Live Aid si spensero, il 13 luglio 1985, oltre due miliardi di persone in 165 Paesi avevano assistito al concerto rock più grande della storia. Due stadi (Wembley Stadium di Londra e John Fitzgerald Kennedy Stadium di Philadelphia) in due continenti diversi, 70 artisti tra i più celebri del tempo, quasi 250 canzoni di fila per 16 ore ininterrotte di musica trasmesse da 16 satelliti sul 95% delle tv del pianeta. Uno spettacolo folle, anche solo da pensare. Ma che proprio per questo raccolse più di 150 miliardi di dollari e salvò oltre 30 milioni di vite in Africa.
Molti lo hanno vissuto, tanti altri hanno potuto solo sentirselo raccontare. Domenica 13 luglio sono trascorsi 40 anni esatti da quello che non è stato solo un concerto, ma un pezzo di storia della musica. Per celebrare questo anniversario, il musicista e storyteller Gabriele Medeot ha pubblicato “Live Aid: il suono di un’era”. Un libro che racconta cosa quell’irripetibile spettacolo sia stato per gli Anni 80, ma che tiene conto anche delle trasformazioni sociali, tecnologiche, economiche e geopolitiche del tempo. Nel volume ci sono il primo computer, l’apartheid, il walkman della Sony, la guerra delle Falkland tra Argentina e Regno Unito. L’arrivo di MTV che fu un fenomeno culturale. E poi il ruolo delle canzoni, che in quegli anni si fecero megafono della coscienza collettiva. Da “Do They Know It’s Christmas” del collettivo britannico Band Aid fino a “We Are The World” di Usa For Africa. Due brani scritti per raccogliere fondi e combattere la carestia in Etiopia che sarebbero stati, sia in Europa che negli Stati Uniti, l’epilogo del Live Aid.
Dietro le quinte dell’organizzazione – I due supergruppi britannico e statunitense furono “il preludio alla folle ideazione” dello spettacolo. A occuparsi dell’iniziativa fu il cantante irlandese Bob Geldof, che era già stato alla guida di Band Aid. Da quando aveva visto un documentario sulla fame in Etiopia, per lui quel concerto era diventato un’ossessione. Voleva aiutare con la musica. E farlo con uno show che avrebbe sfruttato il collegamento satellitare transoceanico. Nessuno aveva mai osato provarci. Come racconta Medeot, “il suo telefono non smetteva di squillare”. Non organizzò tutto da solo. In prima linea c’erano Midge Ure degli Ultravox, i promoter Harvey Goldsmith e Bill Graham e una serie di altre figure che si occuparono degli infiniti aspetti logistici e tecnologici necessari per mettere in piedi un evento di questa portata. Gli artisti si esibirono tutti gratuitamente. Altrettanto (o quasi) fecero i lavoratori. In America non cedettero alle richieste dell’organizzazione e il John Fitzgerald Kennedy Stadium di Philadelphia, alla fine, costò tre milioni e mezzo di dollari. Per Londra, ne erano stati sborsati solo 250mila.
Aneddoti e reunion storiche – Il Live Aid fu unico. Salì sul palco l’Olimpo della musica internazionale. A 5 anni dalla morte del loro batterista, John Bonham, tornarono insieme i Led Zeppelin. A causa di alcuni problemi tecnici, Paul McCartney suonò il piano al buio per due minuti. “Chi lo vide alla televisione lo sentì da subito, ma chi era allo stadio, nel corso dei primi due minuti non si rese conto di chi ci fosse sul palco. Era solo una piccola sagoma seduta al pianoforte, non si sentiva nulla e non si vedeva bene”, racconta Medeot. “Let It Be” a Wembley fu un inno. In diciotto minuti, i Queen misero in piedi forse l’esibizione più bella della loro carriera. Phil Collins cantò a Londra e poi salì sull’aereo supersonico Concorde per essere presente anche a Philadelphia. David Bowie e Mick Jagger provarono un duetto transoceanico in una telefonata rimasta storica con Geldof. Nessuno, però, pensò di registrare. E quell’esibizione era tecnicamente impossibile da replicare live. I due girarono però il video di “Dancing in The Street”, che fu proiettato il giorno dello show. A Londra suonarono anche gli U2, che erano famosi, ma non erano ancora del tutto esplosi. Dopo la performance, nel retropalco, Bono non fu riconosciuto dall’ agente di polizia Beryl Drury che, insieme alla collega Iris Hammond, pattugliava la zona. “Chiese di fare una foto con loro, e subito dopo Beryl, rivolta a Iris, disse: “Chi era quel tipo che ci ha chiesto la foto?”. “Bono”, rispose Iris, “Il cantante degli U2”. “Di chi?”, incalzò Beryl. E Bono, che aveva sentito, ribadì “U2”.
Il Live Aid fu un evento fondamentale per “trenta milioni di esseri umani che morivano di fame (…) e che la musica non potevano proprio ascoltarla”. Parte dei soldi raccolti, oltre a essere usati per gli aiuti umanitari e il loro trasporto, furono incassati dai governi africani per interessi politici e “non per superficialità” Geldof o Band Aid non poterono farci niente. Il concerto non risolse la carestia in Etiopia, ma aiutò a smuovere le coscienze. Fu il suono di un’epoca che, scrive Medeot, “ha cambiato gli anni Ottanta”.
Mentre gli Anni 80 avevano cambiato il mondo.