Un’ora e venti minuti di conversazione intensa, senza sconti, in cui la vita privata e la professione si intrecciano in un unico, coerente racconto di resilienza. Ospite dell’ultima puntata del podcast “Supernova” di Alessandro Cattelan, Concita De Gregorio si è raccontata come raramente aveva fatto prima, parlando della malattia, dei debiti milionari e della sua incrollabile etica del lavoro, il tutto tenuto insieme da una filosofia precisa: “Io ho avuto un’educazione ferrea del non lamento. Non ci si lamenta. […] Io credo che quello che succede nella vita non dipende da te, però dipende da te come reagire”.
Tra i temi più delicati, quello del tumore al seno diagnosticato nel 2022. La giornalista ha spiegato la sua avversione per la narrazione bellica della malattia: “Capisco Emma Marrone quando dice che l’ha guidata la rabbia, la rabbia giusta che è un carburante”, ha premesso, ma ha poi aggiunto: “Sono totalmente contraria alla retorica della battaglia, perché non è vero che si combatte contro la malattia”. La sua riflessione è profonda e spiazzante: “Se fosse così, allora vincerebbero quelli più bravi e perderebbero quelli scarsi e vi garantisco che non è vero. Non c’è un’epica della battaglia, ciascuno fa quello che può e va come va. Però fare quello che puoi significa elaborare rapidamente la direzione”. Parlarne pubblicamente, ha spiegato, è stato un modo per “dare una casa alle cose”: “Io non sono la mia malattia. […] Tanta gente quando mi sono tolta la parrucca mi ha scritto lettere dicendo che aveva fatto lo stesso”.
Cattelan le ha poi chiesto di un’altra “catastrofe” della sua vita: i debiti ereditati dalla sua direzione de l’Unità. “Quasi 3 milioni“, ha confermato la De Gregorio. Ha spiegato il meccanismo giuridico della “responsabilità solidale” del direttore e il contesto politico di quegli anni: “C’erano tutti gli avvocati dell’allora presidente del Consiglio che erano anche parlamentari. Qualsiasi cosa scrivessimo c’era un avvocato che ti faceva una causa civile di risarcimento danni per un milione e quindi si accumulavano, era una forma di intimidazione“. Molti anni dopo aver lasciato la direzione, quelle “azioni temerarie” sono arrivate a lei “perché l’editore non c’era più e non avrei fatto rivalsa sui giornalisti“. Un peso enorme, anche psicologico: “Non avevo i soldi per comprare le sigarette”, ha confessato, ma anche in quel caso, ha prevalso l’educazione “siberiana” del non lamento. “La domanda era: come si fa con tre milioni di debito e tre bambini piccoli a continuare a fare il mio lavoro e non dargliela vinta?”.
Nell’intervista c’è stato spazio anche per il suo mestiere. Ha raccontato un aneddoto inedito e potentissimo sui giorni del G8 di Genova: “Pratico un giornalismo di relazione, di attesa. Al G8 ero la più giovane. Quando è successo il cataclisma, mi sono seduta sui gradini della chiesa e sono rimasta lì tutto il giorno a osservare”. Fu questo approccio a fare la differenza. “Alla fine, un ragazzo del gruppo di amici di Carlo Giuliani mi ha chiesto chi fossi. Gli ho detto che ero una giornalista […]. Gli ho dato il mio numero e gli ho detto che, se avesse letto qualcosa di sbagliato, poteva chiamarmi. Poi, mentre ero a cena, mi ha telefonato per dirmi che stavano facendo irruzione nella scuola Diaz. Allora sono andata con un cameraman e siamo entrati nella scuola prima che la chiudessero. Ero già dentro quando hanno bloccato le strade. Non c’era nessun altro. Il giorno dopo, c’era solo il mio racconto”.
Una lezione di giornalismo che si fonda non sulla coerenza (“non è un valore assoluto“), ma sull'”esercizio del dubbio. Dubitare sempre”. E sullo studio, che per lei è stato lo strumento per fuggire da “un destino già scritto, da una condizione modesta di possibilità”. Un lavoro totalizzante, per una donna “curiosissima” che ammette: “Non vado in vacanza, mi annoio. Mi riposo lavorando, è come entrato nel metabolismo”.