Finiscono nei nostri piatti sotto mentite spoglie, nascosti dietro nomi commerciali ambigui che ne celano la vera identità. Sono gli squali, predatori cruciali per la salute dei mari, che stanno scomparendo a un ritmo allarmante, anche a causa di un consumo spesso inconsapevole. In occasione della Giornata Mondiale dello Squalo, che si celebra oggi, il Wwf accende i riflettori su un paradosso tutto italiano: siamo uno dei principali attori nel commercio globale di carne di squalo, ma la maggior parte di noi non sa nemmeno di mangiarla.
I dati sono impressionanti. L’Unione Europea, con Spagna, Italia e Portogallo in testa, gioca un doppio ruolo di importatore e centro di redistribuzione di carne di squalo. L’Italia è nella top 5 dei paesi importatori: tra il 2017 e il 2023 abbiamo importato oltre 43.000 tonnellate di carne di squalo, prevalentemente dalla Spagna. Eppure, un’indagine condotta su oltre 600 cittadini milanesi e pubblicata sulla rivista scientifica Marine Policy ha rivelato che il 64% dei partecipanti non sa che la carne di squalo è legalmente in vendita in Italia. Il 93% dichiara di non averla mai acquistata volontariamente, ma quasi un terzo (28%) ammette di aver consumato specie come verdesca, palombo o gattuccio senza sapere che si trattasse di squali. Dietro questi nomi comuni, infatti, si celano specie spesso vulnerabili o a rischio estinzione, come la verdesca (Prionace glauca), il palombo (Mustelus mustelus), lo spinarolo (Squalus acanthias) o lo smeriglio (Lamna nasus).
Questa pressione commerciale si inserisce in un quadro ecologico drammatico. A livello globale, la popolazione di squali e razze (elasmobranchi) si è dimezzata negli ultimi 50 anni e oltre il 37% delle specie è minacciato di estinzione. Il Mar Mediterraneo è un “hotspot” di questa crisi: più della metà delle 86 specie note che lo abitano è a rischio. La causa principale è la cattura accidentale (by-catch) nelle attività di pesca. Il problema è aggravato da un’etichettatura spesso carente. Sebbene la normativa europea richieda quattro informazioni fondamentali (denominazione commerciale e scientifica, zona di cattura, metodo di produzione e attrezzo da pesca), molto spesso sull’etichetta compare solo il nome comune, o il prodotto viene venduto già trasformato, soprattutto nella ristorazione, perdendo ogni tracciabilità. Solo il 30% degli italiani intervistati, inoltre, è a conoscenza dei rischi per la salute legati al consumo di carne di grandi predatori come gli squali, che possono accumulare alti livelli di metalli pesanti.
Per questo, il Wwf chiede un impegno collettivo. Ai cittadini, di “dire no” al consumo di carne di squalo, di leggere attentamente le etichette e di familiarizzare con i nomi delle specie. Alle istituzioni, di rendere obbligatoria l’indicazione chiara del nome scientifico, di standardizzare le denominazioni commerciali e di aumentare i controlli.