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La rabbia vince in rete, e tutti ne approfittano: “Più una cosa ci fa arrabbiare, più restiamo incollati allo schermo e più interagiamo”. Si chiama ‘rage bait’ e ne parliamo con una sociologa

“Molti content creator puntano ad aumentare visibilità e interazioni, così da monetizzare tramite la pubblicità”, spiega Elena Valentini sociologa della comunicazione e docente di Giornalismi e piattaforme digitali alla Sapienza Università di Roma

di Youssef Taby
La rabbia vince in rete, e tutti ne approfittano: “Più una cosa ci fa arrabbiare, più restiamo incollati allo schermo e più interagiamo”. Si chiama ‘rage bait’ e ne parliamo con una sociologa

Una carbonara con la panna. Una pizza con l’ananas. Una frase come “le donne non dovrebbero votare”. Basta poco per incendiare i social. Basta un contenuto studiato per far infuriare, polarizzare e dividere. Non importa se è falso, assurdo o grottesco. Perché l’indignazione genera clic, commenti, condivisioni. E nel mondo digitale, ogni reazione si traduce in visibilità. È la logica del rage bait.

“Più una cosa ci fa arrabbiare, più restiamo incollati allo schermo e più interagiamo. Questo vale oro per le piattaforme, che su ogni interazione costruiscono profitto” spiega Elena Valentini, sociologa della comunicazione e docente di Giornalismi e piattaforme digitali alla Sapienza Università di Roma. “Chi crea contenuti lo sa bene: oggi la provocazione è diventata un capitale da investire”. “È un meccanismo ben oliato. – spiega Valentini – I social media offrono strumenti come tasti, emoji e interfacce (le cosiddette affordances) che ci invitano a esprimere un’emozione con un semplice clic. Questi strumenti sono pensati per trasformare le nostre sensazioni in dati, spesso in modo binario: like o dislike, amore o rabbia, bianco o nero. Questo processo, privo di sfumature, alimenta il noto fenomeno della polarizzazione.”

In questo ecosistema, il contenuto non deve per forza informare. Deve far reagire. E meglio se negativamente. Una ricerca su quasi 100 testate statunitensi ha mostrato che i titoli con contenuti emotivi e rabbiosi ottengono livelli di coinvolgimento più alti rispetto a quelli informativi. La rabbia vince. Anche perché, come sottolinea Valentini “è un’emozione che spinge ad agire, non a passare oltre. E da sempre, anche nel giornalismo, si dice che bad news is good news”. Tutto ciò avviene in un contesto in cui gli algoritmi sono opachi, resi ancora meno trasparenti dall’introduzione dell’intelligenza artificiale. Eppure, qualcosa è chiaro: “Sono premiati i commenti negativi, e soprattutto quelli che esprimono rabbia”, spiega Valentini. “Il coinvolgimento si traduce in remunerazione. E per massimizzare le probabilità di far scattare la miccia emotiva, i content creator pubblicano più contenuti possibili: basta che uno ‘funzioni’, e la visibilità arriva”.

Così, proliferano contenuti tossici, provocatori e volutamente divisivi. Operazioni come quelle di Michelle Comi, influencer nota per la sua retorica provocatoria, o Kanye West, diventano strategiche. “Molti content creator puntano ad aumentare visibilità e interazioni, così da monetizzare tramite la pubblicità”, chiarisce Valentini. “È la conferma di un modello tossico che alimenta caos e disordine informativo”. E il caos è la regola. Disinformazione e disordine informativo si intrecciano. “La disinformazione è un sottoinsieme: accade quando un contenuto falso viene diffuso con l’intento preciso di danneggiare qualcuno”, chiarisce Valentini. “Il disordine informativo invece è più ampio e riguarda anche la diffusione inconsapevole di notizie false, meme distorti, provocazioni che sfuggono di mano”. Ma in tutto questo, c’è ancora spazio per una comunicazione complessa, basata sul confronto e non sulla provocazione? Valentini non si fa illusioni: “Di spazio sembra essercene poco. Ma dobbiamo trovarlo. E fare tutti gli sforzi per ampliarlo”. La sfida tocca molti attori: giornalisti, educatori, piattaforme stesse. Anche se da queste ultime, dice la sociologa, è difficile aspettarsi un vero cambiamento: “Sono aziende private: il loro interesse è il profitto, non la qualità del dibattito pubblico”. Eppure esistono contro-narrazioni. Come “Parole Ostili”, progetto che promuove una comunicazione non violenta. O il lavoro della sociologa Sonia Livingstone, della London School of Economics, che indaga l’impatto dei media digitali sulla salute mentale dei giovani. “È urgente promuovere lo spirito critico dei minori” dice Valentini. “Il ruolo di scuole, famiglie e media tradizionali è oggi più cruciale che mai”.

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