Il delitto irrisolto di Nada Cella è un capitolo ancora da scrivere. Nuovi dettagli sul cold case di Chiavari stanno emergendo nel corso del processo aperto a Genova lo scorso febbraio e che vede come imputata con l’accusa di omicidio volontario (aggravato da futili motivi) Annalucia Cecere. Rinviati a processo, lo ricordiamo, anche il commercialista Marco Soracco (datore di lavoro di Nada) e la sua anziana madre Marisa Bacchioni, entrambi con l’accusa di favoreggiamento.
Il delitto di Chiavari- Era il 6 maggio del 1996 quando Nada, all’epoca 24enne, fu brutalmente uccisa nello studio di Soracco in via Marsala, a Chiavari, dove lavorava come segretaria. A ritrovarla in un lago di sangue fu proprio il commercialista. La Cecere, oggi imputata, all’epoca fu già indagata per pochi giorni perché due testimoni l’avevano vista uscire trafelata dal palazzo. I carabinieri andarono a casa sua dove trovarono dei bottoni molto particolari – con una stella a cinque punte e la scritta “Great Seal of the State of Oklahoma” – identici a un altro ritrovato vicino al corpo di Nada Cella. Il movente, secondo l’accusa, sarebbe la gelosia della Cecere nei confronti di Nada per Soracco di cui la prima pare si fosse invaghita. E nel corso dell’ultima udienza sono emersi nuovi dettagli che aggraverebbero la sua posizione.
Nuovi elementi emersi sul caso – Uno degli oggetti contundenti che l’assassino potrebbe aver usato per uccidere Nada Cella – un fermacarte in pietra d’onice – è stato trovato e repertato qualche ora dopo il delitto dagli agenti della polizia scientifica in un armadio vicino alla postazione della stessa vittima. “Perfettamente pulito”, ha ammesso in aula la ex vice-dirigente della polizia scientifica Daniela Campasso facendo ipotizzare che potesse essere stato lavato. E ancora la stessa funzionaria di polizia ha dichiarato che nel 2009, quando il caso Cella venne rianalizzato dai biologi dell’Ert (Esperti Rilievi Tracce) della scientifica, fu isolato sulla sedia di lavoro di Nada un profilo di Dna femminile di un’altra persona. E per la prima volta da quel lontano giorno, in aula è stata fatta una ricostruzione, naturalmente ipotetica, della dinamica del delitto grazie anche alla deposizione di Cosimo Cavalera, allora a capo della scientifica di Genova. Grazie a un’analisi di alcune tracce di sangue repertato sulla scena del crimine, la polizia ha potuto ipotizzare una sequenza dell’aggressione mortale a Nada. “Le sei macchie di sangue trovate nell’ingresso dello studio Soracco – ha dichiarato Cavalera – sono da proiezione perché avevano energia cinetica. È sbagliato ipotizzare che siano state perse durante il trasporto di Nada in ospedale o dall’assassino perché sono tipiche dell’aggressione da impeto, non da caduta”.
Le dichiarazioni della Scientifica – Secondo la ricostruzione di Cavalera, quella mattina, Nada Cella ha aperto la porta dello studio ad una persona a lei nota. Oltretutto, lo studio di Soracco non era dotato di apri-porta automatico. E fu nell’ingresso dello studio che la segretaria 24enne ebbe una discussione con il suo l’assassino che al culmine della lite ha colpito Nada con un oggetto compatibile con un fermacarte in pietra. Poi il killer ha molto probabilmente ferito Nada ma non è riuscito a tramortirla (di qui le macchie di sangue trovate nell’ingresso e sfuggite al lavaggio della Bacchioni). Nada sarebbe riuscita a raggiungere la sua scrivania per cercare di telefonare qualcuno che potesse soccorrerla e qui l’assassino avrebbe lasciato il fermacarte e preso la pinzatrice con cui l’avrebbe ripetutamente colpita fino a ucciderla. Dall’udienza di ieri sarebbe emerso che il fermacarte costituisce, insieme alla pinzatrice, l’arma del delitto.
L’atrocità di questa ricostruzione troverebbe conferma nell’analisi delle macchie di sangue sulla parete. Che secondo l’altra sopracitata funzionaria Daniela Campasso, “sono di due momenti diversi. Il primo riconducibile all’aggressione alla scrivania, il secondo mentre Nada si trovava al muro. Le macchie di sangue negli angoli della stanza e dietro i mobili danno l’idea della dimensione della vastità dell’agire aggressivo”, spiega l’esperta. Nelle fotografie trasmesse in aula anche “la bacinella metallica e i guanti usati presumibilmente quella mattina da Marisa Bacchioni, madre di Soracco, per pulire parte della scena del crimine” (fonte: La Stampa)