Lo stop è durato solo poche ore, ma tanto è basta per osservare l’inasprimento della crisi commerciale tra Stati Uniti e Cina: protagonista il servizio postale Usa che “temporaneamente” e “fino a nuovo avviso” ha comunicato mercoledì di non voler accettare più pacchi dalla Cina e da Hong Kong. Uno stringato comunicato dell’Usps aggiungeva che “il flusso di lettere e buste di grande dimensioni (posta piatta ndr) non sarà influenzato”. Poi, a distanza di poche ore il dietrofront, altrettanto stringato: “Stiamo lavorando a stretto contatto con le autorità del confine per attuare un efficiente meccanismo di riscossione delle nuove tariffe cinesi così da garantire il minimo disturbo nella consegna dei pacchi”, hanno spiegato le poste americane.
La mossa (e la contromossa), arrivata nel pieno della nuova guerra sui diritti doganali tra Washington e Pechino, lasciava presagire pesanti conseguenze sulle società cinesi di e-commerce come Alibaba, Shein e Temu, controllata da Pdd Holdings. Il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian l’ha definita “irragionevole” aggiungendo che gli Usa “devono smetterla con iniziative che colpiscono il commercio” e Pechino “adotterà tutte le misure necessarie per salvaguardare diritti e interessi legittimi delle sue aziende”. “Pressioni e minacce sulla Cina non funzioneranno”, ha concluso.
L’annuncio di Washington è arrivato, ricorda la Cnn, dopo che il presidente Donald Trump ha annunciato i nuovi dazi al 10% su tutti i beni made in China importati e firmato un ordine esecutivo che stoppa l‘esenzione “de minimis”, in base alla quale chiunque può spedire pacchi di valore inferiore a 800 dollari negli Stati Uniti in regime agevolato, senza dazi o dover sottoporsi a ispezioni. Una scappatoia che consentiva di tenere bassi i prezzi. Per tutta risposta Pechino ha varato un pacchetto di misure che prendono di mira il carbone e il gas naturale liquefatto (Gnl) con aliquote del 15%, più un’ulteriore tariffa del 10% su petrolio, attrezzature agricole e alcune automobili.
In parallelo l’antitrust cinese ha avviato un’indagine su Google, “sospettata di aver violato le leggi anti-monopolio cinesi”. Oggi poi è emerso che la stessa authority valuta un’indagine su Apple per le commissioni addebitate agli sviluppatori di app. Secondo Bloomberg, la State Administration for Market Regulation sta esaminando le politiche del gruppo tra cui la riduzione fino al 30% sulla spesa in-app e il divieto di servizi di pagamento e negozi esterni.
Segnali di schiarita per ora non se ne vedono, a differenza di quanto accaduto con Messico e Canada che si sono visti sospendere i dazi a poche ore dall’introduzione. Martedì Trump, parlando con i giornalisti nello Studio Ovale, ha detto che parlerà con l’omologo cinese Xi Jinping “al momento opportuno”. E ha aggiunto: “Non ho fretta”. Parole che non sono piaciute a Pechino. “Quello di cui abbiamo bisogno ora non sono i dazi unilaterali aggiuntivi, ma il dialogo e la consultazione”, ha commentato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lin Jian, che ha criticato le tariffe americane notando che “la mossa “minaccia la catena di approvvigionamento con pressioni che non portano da alcuna parte”. La Cina esprime “forte insoddisfazione e una risoluta opposizione”.