Altra crisi. Altra ragione di affanno. Altra vicenda dagli esiti in larga parte sconosciuti. La caduta del regime di Bashar al-Assad pone una serie di sfide nuove, e di difficile gestione, all’amministrazione Usa. Il governo americano non ha ovviamente mai nutrito alcuna simpatia per Assad. Il suo crollo così repentino, che Joe Biden ha definito “un fondamentale atto di giustizia”, rischia però di far esplodere la situazione, con effetti profondamente negativi sulla politica americana nell’area. Al momento, la strategia di Washington appare volta a contenere gli effetti della crisi. Potrebbe non bastare. Anche perché sono gli Stati Uniti stessi alla soglia di sommovimento profondo: l’uscita di scena di Biden; l’entrata alla Casa Bianca di Donald Trump.
Va anzitutto ricordato che Washington non ha un’ambasciata a Damasco – gli uffici consolari sono stati chiusi nel 2012 –, ma soltanto un ufficio delegato agli affari siriani presso l’ambasciata statunitense in Turchia. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha spiegato che l’amministrazione “ha diversi modi per comunicare con i leader ribelli, talvolta in modo diretto, talvolta attraverso intermediari”. Al di là del linguaggio ovattato della diplomazia, la realtà è però una. Il governo americano non ha canali diplomatici in Siria e il compito di veicolare i propri messaggi a Hayat Tahrir al-Sham, il gruppo che ha preso il potere a Damasco, è sostanzialmente affidato alla Turchia. Ankara, del resto, è il principale alleato di questo movimento islamico, che dal 2018 gli Stati Uniti definiscono un’organizzazione terroristica e con cui quindi non hanno rapporti diplomatici.
La cosa comporta però due ordini di problemi. Il primo. I militanti di Hayat Tahrir al-Sham, appoggiati dalla Turchia, stanno in queste ore combattendo in diverse aree del Paese contro i militanti curdi delle Forze democratiche siriane, sostenuti dagli Stati Uniti. Gli islamici avrebbero per esempio costretto al ritiro i curdi a Manbij. Quindi, per gestire il caso siriano, il governo americano deve paradossalmente affidarsi a un Paese, la Turchia, che è sì suo alleato nella Nato, ma che in Siria ha interessi opposti a quelli americani. Il secondo problema è di più lungo periodo. Hayat Tahrir al-Sham è appunto per gli Stati Uniti un gruppo terrorista, con cui non si parla. Quanto può andare avanti la cosa? L’amministrazione Biden è spaccata. C’è chi dice: apriamo agli islamici, si sono trasformati in un gruppo moderato e lo diventeranno ancora di più con la pratica di governo. Altri appaiono meno sicuri dell’evoluzione moderata di Hayat Tahrir al-Sham e del suo leader Abu Mohammad al-Jolani. Ritengono che i vecchi legami con Al Qaeda non siano completamente recisi e consigliano prudenza prima di allacciare rapporti diplomatici. La spaccatura non fa che alimentare l’incertezza della politica americana nell’area.
Ci sono poi altri problemi per Washington. In Siria ci sono 900 soldati americani, che hanno collaborato con i curdi nel nord-est del Paese per combattere lo Stato Islamico. Il segretario alla difesa Lloyd Austin, che durante il week-end ha parlato con il suo omologo turco Yasar Guler, ha detto che “la priorità numero uno” del governo americano è proteggere i soldati statunitensi. Cosa fare di quel contingente? Se si decide di riportare a casa i militari, li si mette certo al sicuro. Al tempo stesso, Washington vuole assolutamente scongiurare la possibilità di un ritorno dell’Isis in Siria, che il ritiro dei soldati Usa potrebbe favorire. Altro problema ancora è la messa al sicuro di Israele da eventuali attacchi dalla Siria. E da non trascurare è il caso di un giornalista americano, Austin Tice, scomparso a Damasco nel 2012, sequestrato con ogni probabilità dalla polizia di Assad. Funzionari dell’amministrazione ritengono che sia ancora in vita. Non si sa però dove sia, né come fare per riportarlo a casa. Il governo Usa parlerà con la Turchia? O si rivolgerà per cercare aiuto agli islamici di Hayat Tahrir al-Sham?
Come si vede sono tante le domande, molte ancora senza risposta, che segnano la posizione americana nel momento del ribaltamento di potere a Damasco. A questo si aggiunge quanto avviene a Washington. Alla Casa Bianca, il 20 gennaio, entra Donald Trump. In un post su Truth Social, il presidente eletto ha scritto che gli Stati Uniti devono starsene fuori dal “casino” siriano. “Non è la nostra battaglia. Non immischiamoci”, ha spiegato. Durante il suo primo mandato, in accordo con l’ideologia dell’America First, Trump aveva affermato di voler ritirare le truppe Usa dalla Siria, definita una terra “di sabbia e morte” (erano stati i suoi consiglieri militari a dissuaderlo). Tra l’altro, come direttrice della National Intelligence per la sua seconda amministrazione, Trump ha scelto Tulsi Gabbard, una ex democratica che nel 2017 era volata a Damasco, aveva incontrato Assad e l’aveva definito un “bastione” contro l’arrivo degli islamici. Gli islamici sono arrivati ed è ora impossibile per gli Stati Uniti, come chiede Trump, “non immischiarsi”. Ci sono soldati americani da proteggere in Siria. C’è il rischio che il vuoto di potere porti a una ripresa di gruppi terroristici – cosa politicamente imbarazzante per Trump, che si è sempre vantato di essere inflessibile in materia di terrorismo. Insomma, anche la transizione di potere alla Casa Bianca non aiuta. Per gli Stati Uniti, il to be continued della storia siriana appare sfocato e denso di minacce.
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Nella foto in alto | Un combattente in divisa militare a un checkpoint vicino a un busto dell’ex presidente siriano (per quasi 30 anni) Hafez Assad. Sopra alla testa un paio di scarpe