Indietro tutta: la stretta sugli interventi pubblici di giudici e pm non s’ha da fare. O almeno non ancora. Dal decreto legge sulla giustizia approvato nel Consiglio dei ministri di venerdìslittato di qualche giorno dopo un rinvio voluto da Forza Italia – è saltata l’ennesima “norma-bavaglio che avrebbe, potenzialmente, obbligato i magistrati a rinunciare al trattare fascicoli riguardanti qualsiasi materia su cui avessero mai preso posizione in pubblico, ad esempio con un intervento a un convegno o un’intervista a un giornale. All’articolo 4, infatti, la bozza introduceva un nuovo illecito disciplinare a carico delle toghe che non si astengono dai procedimenti “quando sussistono gravi ragioni di convenienza, e non più solo – come già previsto – quando l’astensione è obbligatoria per legge.

L’intervento è stato giustificato dal governo con la necessità di tamponare gli effetti dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, consentendo di perseguire sul piano disciplinare i magistrati che trattano i fascicoli in cui hanno un interesse privato. Secondo i critici, però, la formulazione usata dal governo era troppo ampia per questo scopo e aveva il vero obiettivo di togliere indagini, processi e decisioni “sensibili” ai magistrati ritenuti politicizzati: l’esempio più fresco è quello di Silvia Albano, una dei giudici di Roma che hanno bloccato i trattenimenti dei richiedenti asilo in Albania. A valutare le “gravi ragioni di convenienza”, infatti, sarebbe stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che avrebbe potuto esercitare l’azione disciplinare nei confronti delle toghe “disobbedienti” mandandole a processo di fronte al Consiglio superiore della magistratura, dove avrebbero rischiato sanzioni dal ammonimento alla rimozione dall’ordine giudiziario. Contro l’iniziativa del governo si erano scagliate le opposizioni, in particolare Movimento 5 stelle e Pd, ma soprattutto il mondo della magistratura associata, a partire dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati, l’organismo di rappresentanza di giudici e pm.

Nelle ultime ore, però, ecco il dietrofront: come anticipato dal Corriere, il ministero ha deciso di stralciare la norma dal decreto, ufficialmente per non esacerbare un clima di tensione già altissima con la magistratura. Ma è probabile che abbia avuto un peso anche il timore di un nuovo stop da parte del Quirinale, dopo quello sull’emendamento al decreto fiscale che avrebbe voluto raddoppiare il gettito del 2xmille. Come segnalato da numerosi addetti ai lavori, infatti, il nuovo illecito disciplinare previsto nel decreto avrebbe violato il principio di tipicità, in base al quale le condotte sanzionabili devono essere descritte in modo preciso e non equivocabile: l’espressione generica “gravi ragioni di convenienza”, invece, avrebbe consentito al Guardasigilli di esercitare l’azione disciplinare anche per “casi di partecipazione al dibattito pubblico rispetto ai quali sono emerse radicali diversità di opinioni tra esponenti del potere esecutivo e la magistratura“, avvertiva, tra gli altri, il consigliere togato del Csm Roberto Fontana. Che questo fosse l’intento, d’altra parte, l’aveva ammesso il governo stesso per bocca di Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia di Forza Italia: “Le “gravi ragioni di convenienza” servivano e serviranno, se la norma passerà in Consiglio dei ministri, semplicemente per evitare che ci siano sovrapposizioni fra opinioni e materie da giudicare. Il cittadino non si sentirebbe rassicurato da chi dovesse esprimere opinioni sulla materia di cui poi è responsabile sotto il profilo dei provvedimenti giudiziari”, diceva.

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