Ho letto nei giorni scorsi l’articolo di Milena Gabanelli sui medici di famiglia. L’analisi delle criticità messe in evidenza nell’articolo è condivisibile in via generale, ma si necessitano ulteriori approfondimenti.

Esaminando i dati 2022 dell’Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale, pubblicato dal Ministero della Salute, si evince che l’età media dei pediatri e dei medici di famiglia tende a diminuire, segno buono se non fosse che continuiamo, nell’insieme, a perdere pezzi. Il numero dei medici convenzionati che sono andati o stanno andando in pensione, sommato agli esodi volontari, resta più alto rispetto ai nuovi ingressi.

Abbiamo una media di 150 assistiti in più per medico rispetto all’era pre-Covid e sicuramente un incremento importante dei carichi lavorativi, considerata anche la ridotta offerta di assistenza specialistica territoriale e ospedaliera. Nel 2022 i medici con oltre 27 anni di anzianità di laurea sono 28.500, i giovani 1202. Il rapporto quindi tra vecchi in servizio e nuovi ingressi continua a presentare un gap difficilmente colmabile. Eppure nella narrazione comune la professione del medico di famiglia consente di lavorare poco e guadagnare tantissimo; se nei giovani tale tipo di professione non ha appeal evidentemente cosi non è.

Si discute molto sul corso di formazione post laurea in medicina generale. Tale formazione, oggi, viene affidata agli Ordini Provinciali dei Medici, oppure a corsi Regionali con criteri didattici difformi su tutto l’ambito nazionale e con la tendenza marcata a scegliere i docenti che hanno in tasca la tessera sindacale “giusta”. Opporsi alla trasformazione del corso di medicina generale in specializzazione è rappresentativo di un sistema che, per salvaguardare se stesso, fa da barriera al cambiamento e alla reale salvaguardia degli interessi dei medici.

Del resto – considerato che ai corsisti, per la grave carenza di medici sul territorio, viene data la possibilità già dal primo anno di gestire ambulatori a cui afferiscono fino a mille pazienti – c’è da chiedersi qual è l’utilità del corso di formazione che rimane tale solo sulla carta, avendo di fatto soppresso nella sostanza la possibilità di fare tirocinio e didattica.

E’ un modo distorto di recepire le direttive europee sulla formazione post laurea, quindi meglio abolirlo del tutto e dare la possibilità di accesso alla professione in virtù di un punteggio maturato, cosi come avveniva prima del 1996, anno della Direttiva Ue.

Nella nuova convenzione per la medicina generale che è stata sottoscritta di recente, si parla di giovani medici che dovranno lavorare nelle case di Comunità e nel contempo aprire studi periferici con un carico di lavoro di oltre 48h settimanali, negando la possibilità di optare per il part-time, soprattutto per le giovani professioniste che, ormai, rappresentano il 60% della professione e si devono rapportare con carichi familiari sempre più pesanti, considerate le ataviche carenze in tema di welfare nel nostro paese, sia relative all’infanzia che alla terza età.

Nel nuovo accordo sottoscritto non viene inoltre riconosciuto il lavoro straordinario, oltre quello ordinario svolto. Se questa è la riforma messe in atto che dovrebbe incentivare giovani leve, si risolverà con un buco nell’acqua.

Tutto questo perché la politica non ha il coraggio di esprimersi e dichiarare apertamente alla cittadinanza se vuole i medici di famiglia e i pediatri dentro o fuori le case di Comunità; se li vuole convenzionati o dipendenti, se pensa che l’assistenza distrettuale sia migliore di quella capillare, com’è attualmente. Sicuramente la politica di “Arlecchino servitore di due padroni” non può funzionare.

Come categoria dobbiamo fare “mea culpa”, perché abbiamo di fatto perso nel tempo, di convenzione in convenzione, la possibilità di esercitare la “libera professione”; in cambio ne abbiamo ricavato un demansionamento progressivo, una burocratizzazione del nostro lavoro senza precedenti che esplicita la volontà di un controllo della parte pubblica ormai ossessivo sulla nostra attività.

Della libera professione ci rimane ormai solo il “rischio di impresa” che non viene compensato neanche dai guadagni, considerato che il potere d’acquisto dei nostri stipendi è ridotto del 50% e la mancanza di tutele ci vede in crisi personale e familiare in caso di infortunio o lunga malattia. Perché oltre ad ammalarci perdiamo anche il nostro reddito, in quanto quasi mai i pazienti, dai quali dipendiamo economicamente in virtù della scelta fiduciaria, sono disposti a traslare questo rapporto di fiducia ad un sostituto scelto da noi, con sostituti, tra l’altro, sempre più introvabili.

Sono questi i temi da affrontare, dalla specializzazione alle tutele, se vogliamo risolvere la carenza dei medici sul territorio.

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