Venerdì scorso, 12 aprile, si è concluso l’iter legislativo della revisione della direttiva europea sulle performance energetiche degli edifici (Epbd), una pietra angolare nel piano legislativo del Green Deal approvato nel 2019 da tutte le istituzioni Ue a larga maggioranza. Gli edifici sono responsabili del 36% circa delle emissioni climalteranti e del 40% di consumo di energia. L’inquinamento nelle nostre città è dovuto per una parte importante a riscaldamento e raffreddamento degli edifici e ancora oggi i consumi finali nei settori residenziale e terziario sono rappresentati da un 70% di fossili e un 30% di rinnovabili.

Circa 80.000 persone muoiono prematuramente in Italia per effetto dell’inquinamento dell’aria, alla fine del 2022 si contavano più di due milioni di famiglie in stato di povertà energetica e il 60% degli edifici sono in classi energetiche F o G. E’ più che evidente, dunque, che è necessario un intervento deciso in questo settore se vogliamo raggiungere non solo i target climatici, ma anche quelli di miglioramento della salute e del confort abitativo di milioni di persone. Perché anche decidere di non fare nulla costa.

Il percorso legislativo di questa normativa, iniziato con la proposta della Commissione nel dicembre 2021, è stato a dir poco travagliato, anche perché si è svolto nel bel mezzo del cambio radicale di strategia da parte del gruppo del Partito popolare e di alcuni governi, fra i quali quello italiano, rispetto al Green Deal: da scelta strategica comune, il tema della transizione verde è diventato fortemente divisivo e preda di una grave manipolazione e campagna di disinformazione. Il Ppe ha deciso di rincorrere la destra populista cavalcando preoccupazioni, difficoltà e resistenze di tante persone e imprese di fronte a una trasformazione necessaria, ma che se non adeguatamente preparata, proteggendo soprattutto i settori più vulnerabili, può facilmente essere trasformata in una sfida impossibile. E così la Epbd, normativa piuttosto tecnica e mai al centro di polemiche in passato, è diventata insieme alle regole su automotive il simbolo del rifiuto del Green Deal anche da parte dell’opinione pubblica.

Importanti lobby come la Confedilizia europea e le loro associate, in particolare in Germania e Italia, hanno iniziato una durissima campagna, usando informazioni false (da nuove tasse e numero abnorme di edifici sui quali intervenire a inesistenti pericoli di perdere la casa) prontamente riprese da una stampa complice e superficiale, che hanno spaventato l’opinione pubblica e reso la discussione sui benefici molto difficile.

Il risultato è stato una fase finale della trattativa travagliata, culminata il 7 dicembre 2023 con un accordo al cosiddetto trilogo (il negoziato fra Parlamento europeo, Pe, e rappresentanti dei governi con la mediazione della Commissione) molto ridimensionato rispetto alla proposta iniziale; il 12 marzo il Pe lo ha ratificato definitivamente, con 370 voti favorevoli, 199 contrari e 46 astenuti; il Consiglio ha fatto lo stesso un mese dopo. In genere solo una formalità, il voto finale sul risultato del Trilogo è diventato dall’anno scorso un’occasione di ulteriore modifica e negoziato, grazie al (pessimo) precedente introdotto dalla Germania sulla normativa automotive e continuato in varie occasioni anche dall’Italia (ultimo esempio, imballaggi e due diligence).

Se questo trend dovesse continuare, si rischierebbe di rendere sempre più instabile l’accordo tra i co-legislatori, in precedenza considerato definitivo, e si aprirebbe a voltafaccia molto dannosi per la credibilità stessa del processo legislativo. Un esempio è stato proprio il cambio di voto dell’Italia, che aveva sostenuto l’accordo di dicembre sulle case verdi; per fortuna, questa volta non è bastato a boicottare la direttiva, approvata con una comoda maggioranza. Il ministro Giorgetti ha giustificato il cambio di posizione dell’ultimo momento dicendo che “purtroppo” l’iter legislativo era finito e che l’idea era sicuramente “bellissima”, ma che l’esperienza italiana del Superbonus aveva dimostrato che spingere sulle ristrutturazioni arricchisce pochi e non ci sono più risorse. Il ministro faceva riferimento all’impatto sui conti pubblici del Superbonus 110 e degli altri bonus edilizi: ma questo è un argomento fallace, perché il problema non è che non ci sono risorse.

Il problema è come si decide di usarle: tutti si lamentano oggi dell’impatto sui conti pubblici del Superbonus e degli altri bonus edilizi, ma la responsabilità per il modo spesso inappropriato in cui sono stati applicati e via via estesi è condivisa da quasi tutti, Lega e Fratelli d’Italia in particolare; oggi è urgente riaggiustare tutto il sistema e non solo cancellarli, lasciando nell’incertezza imprese e famiglie; altre ingenti risorse, più di 70 miliardi di euro, sono state date in aiuti a pioggia per pagare le bollette; investimenti miliardari sono previsti in nuovi gasdotti e rigassificatori, nonostante da anni ormai il consumo di gas sia in netta diminuzione in Italia e in Europa e in ogni caso siamo in emergenza climatica e dobbiamo ridurre e non aumentare la nostra dipendenza dai fossili.

E poi ci sono i miliardi previsti in opere inutili come il ponte di Messina e nuove autostrade; i 34 miliardi all’anno in sussidi pubblici ad attività ambientalmente dannose pubblicati ogni anno dal Ministero dell’Ambiente, e si potrebbe continuare. La direttiva stessa, peraltro, menziona gli strumenti Ue utilizzabili per finanziare quella che la Commissione europea aveva chiamato una “Renovation wave”: Next Generation Eu e il Piano di Ripresa e Resilienza, sul quale il governo accumula i ritardi e gli stop and go; il Piano RePowerEU; i fondi della politica di coesione europea, soprattutto per le voci che riguardano la riduzione dei divari territoriali; il Fondo sociale per il clima, che dispone di 65 miliardi di euro da spendere tra il 2026 e il 2032 per i piani nazionali di ristrutturazione degli edifici. Ma ci sono, se adeguatamente sostenuti in particolare da un sistema bancario che per ora finanzia ancora troppo i fossili, gli investimenti delle imprese e delle famiglie, che non sono tutte in condizioni di non potere investire nelle proprie case se libere da speculazioni e imbrogli. E questa volta è imperativo evitare le bolle speculative, le malversazioni e i rincari ingiustificati delle materie prime e dei servizi. Insomma, il “chi paga” può essere definito e organizzato. Bisogna però volerlo.

Il testo finale della direttiva è, come si diceva, fortemente ridimensionato rispetto ai piani iniziali (in particolare, non esiste più l’obbligo di aumentare la prestazione energetica degli edifici attraverso livelli minimi che devono essere raggiunti dai singoli edifici), quindi niente Epc europei e riferimenti a classi energetiche. Inoltre, anche se non si potranno più sovvenzionare caldaie autonome a combustibili fossili a partire dal 2025 e rimane l’obiettivo di abbandonare completamente l’uso di caldaie a combustibili fossili, questo sarà obbligatorio solo dal 2040 e per di più i sussidi potranno continuare per caldaie ibride: questo introduce un’importante scappatoia per continuare a sovvenzionare l’uso del gas e non è un caso che in Italia le categorie interessate abbiano molto spinto molto per eliminare questa disposizione. L’accordo estende poi l’elenco delle esenzioni aggiungendo gli edifici storici, di culto e di proprietà delle forze armate o del governo centrale e destinati alla difesa.

Come valutare questa direttiva? Nonostante il notevole indebolimento della norma e la competizione per le risorse che si prospetta con l’introduzione del nucleare e del Ccs tra le scelte strategiche “verdi”, cosa che rende i sussidi nel settore delle costruzioni meno attraenti, rimangono notevoli i vantaggi di una sua adeguata applicazione: dall’abbattimento delle emissioni alla creazione di nuova attività economica e occupazione, alla riduzione dell’inquinamento e delle bollette, a una maggiore qualità e valore dell’abitato, ecc… Ma poiché esiste una grande flessibilità concessa agli Stati membri nell’applicazione dei vari obblighi, il problema più serio sarà la volontà politica di disporre degli strumenti e dei piani per applicarla al meglio: dalle prime dichiarazioni del governo su questo non c’è da essere troppo ottimisti. Sarà compito anche delle categorie interessate e della società civile vegliare e mobilitarsi perché questa, come anche altre leggi “verdi”, possano davvero aiutarci a realizzare il sogno possibile di un’Europa e Italia a “prova di clima”.

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