La svolta a destra del Parlamento europeo appare inevitabile, resta solo da capire se si tradurrà in una vera coalizione. A meno di sei mesi dal voto per eleggere i nuovi rappresentanti della Plenaria di Strasburgo, uno studio dello European Council on Foreign Relations basato su recenti sondaggi effettuati in tutti i 27 Paesi membri e su un modello statistico che traccia le performance dei partiti nazionali nelle precedenti elezioni continentali consegna la mappa di un’Unione che abbandona i partiti cosiddetti tradizionali e guarda alle formazioni di destra, estrema destra o populiste.

Il gioco delle nomine, delle alleanze, degli scambi e delle promesse precedente al voto che determinerà i futuri cinque anni delle istituzioni comunitarie è appena all’inizio. Ma mai come quest’anno le famiglie politiche, quella del Partito Popolare Europeo in particolare, sono chiamate a prendere una decisione netta: andare avanti con la coalizione tra Socialisti, Renew e Popolari, con qualche concessione ai Conservatori rispetto al passato, oppure svoltare radicalmente a destra, sfruttando la debolezza dei partiti tradizionali e l’avanzare del nazionalismo sul quale si fondano, ad esempio, i partiti del gruppo Identità e Democrazia come Lega, il Rassemblement National di Marine Le Pen e i tedeschi di Alternative für Deutschland?

Oggi come mai questo è un quesito che non può essere ignorato. Perché secondo i dati diffusi da Ecfr “i partiti populisti e antieuropei sono in testa ai sondaggi in nove Stati membri dell’Ue, tra cui Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia (dove però hanno appena perso le elezioni politiche, nda) e Slovacchia e otterranno il secondo o il terzo posto in altri nove Paesi, tra cui Bulgaria, Estonia, Finlandia, Germania, Lettonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia“. Non solo l’Europa dell’est, quindi, come era stato a grandi linee fino a oggi, ma anche nel cuore dell’Unione, tra i Paesi fondatori, la destra sta prendendo il sopravvento. Tanto che, secondo i calcoli del centro studi, ad oggi il Partito Popolare Europeo potrebbe ottenere 173 seggi, confermandosi la prima famiglia, mentre ai Socialisti ne andrebbero 131. Ma il grande balzo in avanti è quello di Identità e Democrazia: grazie al possibile exploit di AfD e alla crescita del partito di Marine Le Pen, il gruppo potrebbe ottenere ben 98 scranni contro i 58 attuali. In questo modo sarebbe la terza forza del Parlamento superando i liberali di Renew Europe (a 86) e pure i Conservatori di Giorgia Meloni (85), anche loro in forte crescita ma penalizzati dalla sconfitta del partito polacco Diritto e Giustizia alle ultime Politiche.

‘Maggioranza Ursula’ o destra al comando?
Questi i numeri, poi però ci sono le volontà (e le affinità) politiche a spostare gli equilibri. Il Ppe, seppur in calo nei sondaggi rispetto alle elezioni del 2019, si trova in una posizione molto più favorevole: quella di ago della bilancia, di chi ha il potere di decidere quale orientamento dare alla prossima Commissione Ue. Una grande occasione, se non fosse per le divisioni interne al partito. I più conservatori, guidati dal capogruppo e presidente del Ppe, il tedesco della Csu Manfred Weber, e dei quali fa parte anche Forza Italia, sognano un cambio di postura, con un’intesa sulle nomine da raggiungere con Renew, Ecr e la parte “presentabile” di ID, ossia Lega e Rassemblement National. I numeri, stando alle previsioni di Ecfr, ci sarebbero e questo permetterebbe all’ala conservatrice del Ppe di ‘ripulirsi’ da decenni di accordi con i Socialisti, una delle colpe che gli vengono imputate da Ecr e ID.

Gli ostacoli da superare per arrivare a una soluzione del genere, però, non sono pochi. Innanzitutto è da sondare la disponibilità di liberali o dell’ala più centrista dello stesso Ppe di fare accordi per le cariche dei tre principali organi dell’Ue con formazioni considerate estremiste e spesso avversarie nei propri Paesi, come nel caso dei partiti di Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Senza dimenticare che la stessa Cdu tedesca non vede di buon occhio intese con gli alleati europei di AfD. A questo si aggiunge il fatto che, con ogni probabilità, dal prossimo congresso del Ppe uscirà la ricandidatura di Ursula von der Leyen come Spitzenkandidat. Una mossa inevitabile, spiegano fonti del Parlamento Ue a Ilfattoquotidiano.it: primo, perché sarebbe un segno di continuità in appoggio all’operato della presidente da loro nominata nel 2019; secondo, perché la cosiddetta ‘maggioranza Ursula‘ (Socialisti, Liberali e Popolari con l’aggiunta dei Conservatori) rimane l’opzione preferita dalla maggior parte del partito. Problemi, aggiungono però le fonti, facilmente superabili: lo schiacciamento di von der Leyen sulle posizioni americane, diventato più marcato dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ha reso palese la sua intenzione di correre per il ruolo di segretario generale della Nato, succedendo a Jens Stoltenberg. Una candidatura sponsorizzata anche dal compagno di partito Weber che, così, avrebbe la strada spianata come candidato di punta del Ppe, dopo l’ultimo fallimento del 2019.

Con Manfred Weber a dare le carte sulle nomine, la possibilità di un accordo con la destra più conservatrice e populista acquisterebbe crediti. Rimangono i problemi di quali partiti, soprattutto tra quelli di ID, coinvolgere: la Cdu, salvo colpi di scena, metterà il veto su AfD, mentre andranno sciolte le questioni di compatibilità tra Macron-Le Pen e i conservatori polacchi del Pis con il partito di Donald Tusk. Senza dimenticare l’incognita Viktor Orbán. Le stesse fonti sostengono però che l’ala liberale del Ppe, dopo anni di guida a trazione Weber, sarebbe anche disposta a concedergli la poltrona più importante di Palazzo Berlaymont e un accordo con le destre europee pur di avviare un nuovo corso all’interno del partito.

I rischi: un Ppe spaccato e la demolizione del mandato von der Leyen
Se l’accordo sulle nomine può essere trovato, le difficoltà più grandi di un’alleanza con le destre rischiano di manifestarsi al momento delle votazioni nella Plenaria di Strasburgo. E a subirne le conseguenze, per primo, potrebbe essere proprio il Ppe. Cosa succederà quando si dovrà votare sui dossier ‘bandiera’ del mandato von der Leyen, come ad esempio il Green Deal europeo? Si rimarrà fedeli all’attuale linea di partito o ci si schiererà con i nuovi alleati di destra? Il rischio è che in occasioni del genere le due anime della più grande famiglia europea emergano, portando a una spaccatura tra gli scranni europei, con conseguenti imbarazzi e frizioni interne.

Secondo lo studio di Ecfr, le maggiori implicazioni di questa svolta a destra riguarderanno proprio la politica ambientale, al centro del mandato di von der Leyen e già nel mirino dei gruppi della destra nel corso dell’ultima legislatura. Nell’attuale Parlamento, una coalizione di centrosinistra tende a vincere sulle questioni ambientali, ma molti di questi voti sono stati ottenuti con margini molto ridotti. Con un significativo spostamento a destra, è probabile che il quadro del Green Deal Ue venga sensibilmente ridimensionato, rischiando di provocare il fallimento dell’attuazione di politiche comuni per raggiungere l’obiettivo zero emissioni nette al 2050. Stessa cosa vale per la battaglia sullo Stato di diritto che ha coinvolto Paesi come Polonia e Ungheria, più complicata da portare avanti in caso di svolta a destra del Parlamento. Tutti punti che i partiti, e soprattutto il Ppe, dovranno valutare bene: il rischio è quello di rinnegare gli ultimi cinque anni di mandato e dare il via a una disgregazione che inizierà all’interno del Partito Popolare.

Twitter: @GianniRosini

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