di Francesco Celardo, giornalista

Aggredito da un finanziere imputato e costretto a lasciare l’aula di un processo aperto al pubblico. Capita anche questo, perché per minacciare un giornalista che cerca di fare bene il suo lavoro non ci sono solo le querele temerarie. C’è anche altro da cui difendersi.

Al Tribunale di Napoli Nord, 11 tra finanzieri e poliziotti (artificieri) in servizio presso il Gruppo di Giugliano e la Questura di Napoli, sono alla sbarra per reati gravi come il peculato, la ricettazione, la falsità materiale ed il falso ideologico. Secondo l’accusa sequestravano fuochi e magliette e con la complicità di altri colleghi si spartivano i prodotti sequestrati. Per non destare sospetti, poi, falsificavano i verbali attestando falsamente di aver distrutto quella merce. Una brutta immagine per la Guardia di finanza, che ha subito reagito aprendo un’indagine interna.

Il 17 ottobre davanti al giudice c’è stata un’udienza molto particolare. Il pm titolare del fascicolo, Vincenzo Savoia, ha interrogato Emanuele Cardia, l’ufficiale che ha svolto le indagini ricostruendo la doppia attività illegale delle divise. Ero presente a quell’udienza. All’atto in cui prende la parola l’ufficiale, che elenca le varie fasi dell’indagine – condotta insieme al suo capo, l’allora colonnello Domenico Napolitano – vengo palesemente aggredito da due finanzieri imputati. “Tu chi sei un giornalista?”. Mi accusano falsamente di registrare l’udienza. “Stai registrando? Non ti permettere di farlo. Tu qui non puoi stare”. Cerco di trattenermi, spiego a entrambi che l’udienza è pubblica. Ma i due militari sospesi dal servizio rispondono: “Ti faccio identificare, vai via da qui dentro”. Come fossi un terrorista. Uno dei due mi spintona, apre la porta e mi caccia letteralmente fuori dall’aula. Decido di rivolgermi alla Polizia penitenziaria. I due agenti di servizio alla porta principale mi rispondono così: “Noi non ci possiamo fare nulla, si rivolga ai carabinieri”. Vado dal carabiniere di servizio alle aule e gli racconto il fatto. Lui mi risponde: “Guardi, lei ha ragione, ma lo deve chiedere al giudice”.

A fianco c’era una testimone che ha visto tutto. Ha visto pure che uno di quelli che mi ha sbattuto fuori dall’aula mi monitorava da lontano. Alla fine, per evitare polemiche, sono andato via. Ho poi saputo che uno degli avvocati ha lamentato al giudice la presenza di un giornalista in aula. Il giudice avrebbe risposto che l’udienza era pubblica e dunque la mia presenza non recava danno a nessuno. Se non forse agli imputati, che non volevano che si sapesse in giro quello che era stato accertato nei loro confronti. Troppa la vergogna di cui si sarebbero coperti in merito al ruolo che fino a pochi mesi fa ricoprivano in un corpo glorioso come la Guardia di Finanza.

Il pezzo l’ho scritto lo stesso. Certamente non mi hanno messo paura più di quando le minacce provengono da ambienti malavitosi. Ho sporto regolare denuncia. Nella vita di un cronista succede pure questo. Di essere cacciati da un’aula di tribunale, dove si cerca la verità, per evitare di far raccontare la verità. Quella che fa paura solo a pensarci.

È un mestiere difficile il nostro. Bisogna stare attenti a come scrivi. Le inchieste sono destabilizzanti, raccontano fatti che qualcuno non vuole vengano messi a conoscenza dell’opinione pubblica. E se ti arriva la querela, l’avvocato te lo devi pagare tu, perché il giornale non ti paga nulla. Anzi, non ti paga proprio. E ti ritrovi a doverti difendere da personaggi che assumono atteggiamenti peggiori dei camorristi. Nei miei vent’anni di giornalismo di strada ho sempre pensato che l’onestà intellettuale nel raccontare i fatti conta più di qualunque altra cosa. La paura fa parte del gioco, ma non deve mai essere un motivo per non scrivere. Anzi, deve essere da stimolo per raccontare ancora di più le cose come stanno. L’importante è esserci sempre.

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