Altro che 2-3 miliardi di coperture per la manovra, come aveva ipotizzato qualcuno. La tassa minima globale del 15% sulle multinazionali frutterà al fisco italiano meno di 400 milioni e solo dal 2025, toccando un massimo di 496,4 milioni nel 2033. A fare i conti è la relazione tecnica del decreto sulla fiscalità internazionale approvato lunedì in cdm insieme alla legge di Bilancio, che recepisce i contenuti della direttiva Ue sulla global minimum tax basata a sua volta sugli accordi raggiunti nel 2021 in sede G20 e Ocse. I numeri al momento sono per forza di cose prudenziali perché le variabili in campo sono tante, a partire da come i grandi gruppi reagiranno al balzello. Ma confermano la debolezza di una misura che nel corso dei negoziati è stata depotenziata fino a renderla assai poco efficace, secondo molti osservatori indipendenti, nel contrasto allo spostamento dei profitti nei paradisi fiscali.

L’architettura della nuova imposta, che opera sui gruppi con oltre 750 milioni di fatturato nel mondo, ha una certa complessità e prevede tre diverse possibilità di applicazione. L’unica da cui il governo conta di trarre effettivamente gettito è l’imposta minima nazionale (Qualified domestic minimum top-up tax) pari alla differenza tra il 15% e l’imposizione effettiva a cui sono soggette le imprese di un gruppo multinazionale o nazionale localizzate in Italia.

L’imposizione minima integrativa (Income inclusion rule) potrebbe invece dover essere pagata dalle capigruppo con base in Italia per eventuali imprese controllate con sedi in Paesi a bassa tassazione. Ma scatterebbe solo nel caso i Paesi in cui sono localizzate le controllate non introducano la loro imposta minima nazionale, cosa che viene ritenuta poco probabile “tenuto conto che molti Paesi hanno già legiferato, o annunciato, l’istituzione di una Qdmtt”. Una sfortuna per la Penisola, che non potrà tassare i profitti spostati all’estero da alcune grandi banche.

In seconda battuta si potrebbe applicare una imposta suppletiva sulle multinazionali con attività nel nostro Paese e controllate che abbiano imposizione effettiva sotto il 15%. Ma il fisco italiano potrà riscuoterla solo se il paradiso fiscale in cui si trova la filiale non applicherà l’aliquota minima e nemmeno lo Stato di residenza della capogruppo si sarà attivato per riscuotere il dovuto. “In via prudenziale”, anche questo scenario viene giudicato non plausibile e non si prevedono effetti finanziari positivi.

Resta dunque solo l’imposta minima nazionale. Il ministero dell’Economia ne stima l’impatto partendo dai country-by-country-report, cioè la rendicontazione Paese per Paese delle attività delle multinazionali. È nel calcolo dell’imposizione effettiva a cui sono soggette – il rapporto tra imposte e utile di bilancio – che si iniziano a vedere gli effetti delle scappatoie introdotte per arrivare a un’intesa tra i quasi 140 Stati Ocse. I crediti di imposta non vengono per esempio considerati come minori tasse pagate e dalla base imponibile vengono escluse percentuali (decrescenti negli anni) delle spese per personale e del valore delle immobilizzazioni. Nel primo anno le quote saranno rispettivamente del 9,8 e 8%.

Con le ipotesi viste finora, e senza considerare eventuali effetti positivi legati a un’ipotetica riduzione del profit shifting grazie alla tassa minima globale, la Rt arriva quindi alla conclusione che il primo incasso sarà di soli 381,3 milioni di euro di cui 293,5 da multinazionali “mature” e 87,4 da quelle alla prima fase di internazionalizzazione. Bisognerà però aspettare il 2025, perché la norma prevede il versamento del dovuto in due rate di cui la prima (90%) entro 11 mesi dalla fine del primo anno di applicazione e il resto il mese dopo la dichiarazione annuale sull’esercizio. Grazie al calo progressivo degli “sconti” sull’imponibile la cifra dovrebbe salire a 427,9 milioni nel 2026, 432,5 nel 2027 e poi progredire lentamente fino ai 496,4 milioni del 2033. Stime ben più basse rispetto a quelle dell’EU Tax Observatory, il centro di ricerca indipendente della Scuola d’economia di Parigi diretto dall’economista Gabriel Zucman, che l’anno scorso aveva ipotizzato per l’Italia ricavi di 800 milioni a regime in caso di applicazione della sola Qualified domestic top-up tax e 2,7 miliardi con l’imposizione minima integrativa.

Nessun membro del governo o della maggioranza ha commentato le magre cifre. Intanto, restando in tema di tassazione (ed evasione) delle multinazionali, Lega e Fratelli d’Italia nella commissione Finanze della Camera hanno bocciato gli emendamenti proposti da Oxfam al ddl delega di recepimento di direttive europee nei quali si chiedeva di rafforzare gli obblighi di trasparenza previsti dalla direttiva sul country-by-country-report pubblico. Oggi quei rapporti sono confidenziali: li ha in mano solo l’Agenzia delle Entrate. La Ue, dopo anni di stallo, ha deciso di introdurre obblighi di pubblicità per pochi grandi gruppi, con una disaggregazione ridotta e consentendo di omettere temporaneamente alcune informazioni. Oxfam chiedeva all’esecutivo di Giorgia Meloni – che ha spesso sostenuto di voler combattere l’evasione partendo dalle “grandi imprese” – di impegnarsi a fare qualche passo in più. Nulla di fatto.

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