“Nel momento in cui i negoziati sono finiti, l’accordo era già stato annacquato così tanto che porterà pochi ricavi addizionali ai Paesi in via di sviluppo. (…) Gran parte del gettito verrà raccolto o dai Paesi d’origine (per lo più grandi economie avanzate) o da paradisi fiscali come Irlanda, Svizzera e Singapore, che si sono limitati ad alzare al 15% le loro aliquote straordinariamente basse“. L’economista Premio Nobel Joseph Stiglitz e Tommaso Faccio, docente alla Nottingham University Business School e segretario generale della Commissione per la riforma della tassazione delle multinazionali (Icrict), presieduta dallo stesso Stiglitz con Jayati Ghosh, hanno riassunto così in un intervento su Project syndicate lo stato dell’arte sulla nuova architettura fiscale globale negoziata da 140 Paesi in sede Ocse e concordata due anni fa a livello del G7 e del G20. Quegli accordi prevedono da un lato un’aliquota minima globale del 15% per le multinazionali con fatturato superiore a 750 milioni, dall’altro il diritto per gli Stati in cui i grandissimi gruppi generano entrate di tassarne almeno una parte. Ma secondo Icrict occorre ripartire da zero, con un nuovo round di trattative che conduca a un accordo più equo.

L’obiettivo dell’aliquota minima, il cosiddetto “secondo pilastro”, era quello di eliminare la concorrenza al ribasso tra Paesi e la tentazione del profit shifting, cioè lo spostamento dei profitti in quelli a minore tassazione con l’obiettivo di pagare meno tasse. Tecniche di elusione che sottraggono alle casse pubbliche gettito per un valore di 240 miliardi di dollari all’anno. Ma per trovare un accordo tra gli Stati più industrializzati si è ripiegato su un compromesso al ribasso e l’asticella è stata abbassata notevolmente rispetto al 21% ipotizzato inizialmente. A un livello inferiore all’aliquota pagata da lavoratori dipendenti e piccole imprese e con scappatoie che riducono di molto il gettito aggiuntivo atteso. Secondo l’Osservatorio fiscale europeo, i 27 membri dell’Ue dovrebbero per esempio incassare nel primo anno di applicazione circa 63,9 miliardi aggiuntivi contro gli 83,3 a cui potrebbero ambire senza deduzioni e i 169,3 che sarebbero risultati se l’aliquota fosse stata fissata non al 15% ma al 21%.

I passaggi successivi, come ricostruiscono Stiglitz e Faccio, hanno indebolito ancora di più lo schema. “Mentre la Ue e gli altri membri dell’Ocse hanno iniziato a implementare l’intesa, il Congresso Usa ha respinto lo scorso anno questo approccio per il timore di creare uno svantaggio competitivo per le compagnie statunitensi. Con l’Inflation reduction act, gli Stati Uniti hanno invece optato per una minimum tax alternativa sulle società che hanno ricavi superiori a 1 miliardo per tre anni consecutivi – un criterio che si applica solo a un piccolo gruppo”. E nel frattempo le regole per determinare chi ha diritto di applicare la sovrattassa sui profitti tassati meno del 15% sono state congegnate in modo tale che i Paesi in via di sviluppo, di per sé poco competitivi e attrattivi per gli investitori se non compensano con un sistema fiscale di favore, finiscano per uscirne perdenti. Mentre a un mini paradiso come la Svizzera o Singapore basta ritoccare le sue basse aliquote, portandole al 15%, per guadagnarci.

I Paesi poveri sono destinati inoltre a trarre scarsissimo vantaggio dal primo pilastro, quello che prevede che le multinazionali con ricavi superiori ai 20 miliardi e redditività superiore al 10% possano essere tassate dove registrano effettivamente i ricavi anche in assegna di una sede legale: la riallocazione si applicherà solo a un centinaio di gruppi e sarà applicata solo al 25% dell’utile residuo (profitti meno il 10% del fatturato globale) mentre “il grosso dei profitti resterà soggetto all’attuale sistema di transfer pricing”. Secondo il Fondo monetario internazionale, il gettito globale della tassazione sulle imprese aumenterà di soli 12 miliardi complessivi, principalmente a vantaggio delle economie avanzate.

Morale: gli accordi del 2021, attaccano i due esperti di fiscalità internazionale, “rinforzano le iniquità globali consegnando ai Paesi in via di sviluppo uno scarso gettito in una fase in cui fronteggiano una tempesta perfetta fatta di crisi energetica, alimentare e del debito”. Non a caso Stati come Colombia e Tanzania sono corsi ai ripari adottando nuove fonti di gettito nella forma, per esempio, di una tassa sui servizi digitali che però non è consentita dagli accordi nel 2021 (anche l’Italia in vista dell’applicazione del primo pilastro dovrà abolire la sua). La stessa Colombia, insieme a Brasile e Cile, ha organizzato discussioni per individuare un approccio comune a livello regionale. A dimostrazione del fatto che le intese di due anni fa sono estremamente fragili. Di qui l’appello di Icrict che, riprendendo la risoluzione presentata lo scorso novembre dagli Stati africani alle Nazioni Unite, chiede ai Paesi ricchi di avviare un nuovo round di negoziati più inclusivo che porti a una riforma più equa e sostenibile.

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