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In Yemen una difensora dei diritti umani rischia la pena di morte

In Yemen una difensora dei diritti umani rischia la pena di morte
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Se c’è stata, ed è stato un bene, una certa attenzione sui crimini di guerra commessi durante l’offensiva militare lanciata nel 2015 da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nello Yemen, è passata nel silenzio la repressione operata dai gruppi armati huthi – contro i quali erano diretti i bombardamenti, che però hanno fatto migliaia di vittime civili – nei territori sotto il loro controllo.

Territori governati sopprimendo il diritto alla libertà di espressione e ogni forma di dissenso, attraverso minacce, arresti, processi e condanne di giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani.

L’ultimo esempio risale al 26 settembre, quando, in occasione dell’anniversario della rivoluzione che in quel giorno del 1962 rovesciò l’imam Muhammad al-Badr, dando vita alla nascita della Repubblica araba dello Yemen, migliaia di persone sono scese in piazza sventolando la bandiera nazionale.

Le forze di sicurezza huthi e i loro sostenitori hanno attaccato i manifestanti nella capitale Sana’a e ad Houdeidah. A chi è andata bene hanno solo strappato la bandiera. Altri sono stati picchiati e arrestati e sono finiti sotto inchiesta per accuse del tutto vaghe, come “aver creato caos” e “aver agito per conto di altre parti”.

Nel frattempo la difensora dei diritti umani Fatma al-Arwali è in carcere da oltre un anno. Le forze huthi l’hanno arrestata il 13 agosto 2022 a un posto di blocco nel governatorato di Ta’iz. Per otto mesi i suoi familiari l’hanno cercata in ogni dove fino a quando hanno appreso che era tenuta in isolamento in un centro di detenzione dei servizi segreti. Fatma al-Arwali era a capo dell’ufficio yemenita per la promozione delle donne presso la Lega araba ed era molto attiva nella difesa dei diritti umani.

L’accusa nei suoi confronti è di aver fornito coordinate delle forze armate huthi “aiutando l’aggressione degli Emirati Arabi Uniti”. Per il reato di cui è accusata, rischia la pena di morte. Il suo caso, come quello di altre decine di difensori dei diritti umani, giornalisti e oppositori politici, è nelle mani della Corte penale speciale, che il 19 settembre ha tenuto la prima udienza.

Quando ha potuto prendere la parola, Fatma al-Arwali ha denunciato di essere tenuta da oltre un anno in una stanza sottoterra, senza vedere la luce del sole. Ha chiesto di poter rivedere i suoi figli. L’avvocato ha chiesto una copia degli atti processuali: il giudice ha risposto che l’imputata non aveva bisogno di un avvocato e lo ha espulso dall’aula.

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