Un atteggiamento “autoritario e antidemocratico” dell’Egitto che condiziona la giurisdizione italiana e, in questo modo, crea “una situazione di immunità non riconosciuta” violando anche la Convenzione sulla tortura ratificata da Roma e Il Cairo. Con queste motivazioni il giudice per l’udienza preliminare di Roma, Roberto Ranazzi, ha deciso di inviare gli atti del procedimento sulla morte di Giulio Regeni alla Consulta che dovrà chiarire se la vicenda processuale può andare avanti anche senza la certezza che gli agenti egiziani siano formalmente a conoscenza delle accuse che sono loro rivolte. Il giudice ha chiesto di esprimersi sulla questione relativa all’assenza degli imputati, i quattro 007 del Cairo, per superare la “stasi” del processo dovuta all’ostruzionismo delle autorità egiziane che si rifiutano di collaborare con quelle italiane per le notifiche del procedimento agli imputati.

La richiesta del procuratore Francesco Lo Voi e dell’aggiunto Sergio Colaiocco riguardava la questione di costituzionalità dell’art. 420 bis del codice di procedura penale in tema di “assenza” dell’accusato. In particolare la Consulta dovrà decidere sull’articolo così come modificato dalla riforma Cartabia nella parte in cui non prevede che si possa procedere in assenza dell’accusato “nei casi in cui la formale mancata conoscenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria da parte dello Stato di appartenenza o residenza dell’accusato stesso”. L’articolo in questione stabilisce l’impossibilità di arrivare a una sentenza se gli imputati non sono a conoscenza dell’esistenza di un processo a loro carico. In questo caso, l’Egitto si rifiuta di notificare gli atti agli agenti imputati. Gli 007 sono accusati – a vario titolo – di aver sequestrato, torturato e ucciso il ricercatore friuliano. Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi sono accusati di sequestro di persona con Magdi Ibrahim Abdelal Sharif che deve rispondere anche di lesioni e concorso nell’omicidio.

Nell’ordinanza firmata dal gup si legge infatti che “è dunque immediatamente possibile cogliere la rilevanza della questione che si intende prospettare rispetto al caso concreto, qualora venisse affermata l’illegittimità costituzionale dell’art. 420bis commi 2 e 3 cpp, nella parte in cui non prevedono la possibilità di procedere in assenza quando la mancata conoscenza del processo o della pendenza del processo sia dovuta all’accertato rifiuto di assistenza giudiziaria da parte dello Stato estero di appartenenza o di residenza dell’imputato. Infatti, poiché nel caso di specie è stato accertato dal giudice remittente il rifiuto delle Autorità di Governo e dell’Autorità giudiziaria della Repubblica Araba di Egitto di prestare assistenza giudiziaria alla Autorità giudiziaria italiana per il rintraccio e la notifica degli atti processuali agli imputati, la declaratoria di illegittimità costituzionale consentirebbe di procedere in assenza dei quattro imputati”.

Ma il gup, oltre a rilevare quello che ritiene un vulnus costituzionale, va oltre e spiega perché, a suo parere, l’impossibilità di procedere nei confronti di persone nella posizione dei quattro imputati per il caso Regeni configuri la possibilità per uno Stato estero di condizionare la giurisdizione italiana: “Di fatto, lo Stato egiziano rifiutando di cooperare con le Autorità italiane sottrae i propri funzionari alla giurisdizione del giudice italiano, creando una situazione di immunità non riconosciuta da alcuna norma dell’ordinamento internazionale, peraltro con delitti che violano i diritti fondamentali dell’uomo universalmente riconosciuti. Tale situazione di immunità determina una inammissibile ‘zona franca’ di impunità per i cittadini-funzionari egiziani nei confronti dei cittadini italiani che abbiano subito in quel Paese dei delitti per i quali è riconosciuta la giurisdizione del giudice italiano in base alle convenzioni internazionali”. E attacca poi duramente l’atteggiamento del Cairo: “La scelta delle autorità egiziane di sottrarre i propri cittadini alla giurisdizione italiana per l’accertamento delle responsabilità in ordine a delitti che ledono i diritti inviolabili dell’uomo è una scelta antidemocratica, autoritaria, che di fatto crea in Italia, Paese che si ispira ai principi democratici e di eguaglianza, una disparità di trattamento rispetto ai cittadini italiani e ai cittadini stranieri di altri Paesi che in casi analoghi verrebbero processati”.

Tutto questo in violazione anche dell’articolo 9 della Convenzione sulla tortura, secondo il quale “gli Stati Parte si accordano l’assistenza giudiziaria più vasta possibile in qualsiasi procedimento penale relativo ai reati di cui all’articolo 4, compresa la comunicazione di tutti gli elementi di prova disponibili e necessari ai fini del procedimento”. “Tale ultima disposizione della Convenzione – sostiene il gup – non solo è stata ignorata dalle Autorità di Governo e dalle Autorità giudiziarie egiziane, ma è stata ‘osteggiata’ in modo palese. La violazione della Convenzione internazionale sulla tortura da parte dello Stato egiziano (che ha ratificato il trattato) impedisce allo Stato italiano, a sua volta, di osservare la medesima Convenzione, e cioè di processare i presunti autori del delitto di tortura commesso nei confronti di Giulio Regeni”.

“C’è una speranza in più, speriamo che questa sia la volta definitiva e che venga sancito che questo processo si può e si deve fare. Visto che noi diciamo sempre che Giulio ‘fa cose’, speriamo che Giulio possa intervenire anche in una riforma legislativa che consenta di non lasciare impuniti i reati di questa gravità quando gli Stati non collaborano”, ha detto l’avvocata Alessandra Ballerini, riferendo il pensiero dei genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, sulla decisione del gup.

Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016 e il suo cadavere ritrovato dieci giorni dopo, lungo la strada che collega Il Cairo ad Alessandria. Nelle prime settimane dopo il ritrovamento del corpo, tante false piste si susseguirono: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, successivamente si insinuò che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l’aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte, alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte.

Il 24 marzo del 2016 arrivò l’ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c’erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. Le verifiche dei magistrati italiani smentirono tutte le bugie del Cairo e chi indaga è convinto che il giovane sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia ai servizi egiziani dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi.

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