Il problema del futuro è che non può sovrascrivere il passato. In nessun modo. In questo guscio di noce sembra essere racchiusa tutta la parabola di Erik Lamela, il genietto argentino che doveva essere l’ennesimo bignami di Diego Armando Maradona ma che a trentun anni si trova ancora a lottare per affermare se stesso. Colpa di un cronosisma che ha finito per eternare la dimensione del ciò che avrebbe potuto essere, fino a fagocitare ciò che realmente è stato. Nell’estate del 2013 l’estroso esterno era stato sacrificato dalla Roma sull’altare delle plusvalenze. Il Tottenham aveva presentato una proposta da 35 milioni di euro. Il doppio di quanto avevano sborsato i giallorossi per strapparlo al River Plate due anni prima. Era esattamente quel genere di offerte che Walter Sabatini non avrebbe mai potuto rifiutare. In quel momento Lamela era considerato un campione in nuce, un talento a intermittenza capace di regalare giocate di classe abbacinante per poi spegnersi nell’oblio. Anche per intere settimane.

Ora, dieci anni più tardi, Erik ritrova la “sua” Roma al culmine di una carriera fin troppo coerente con quelle che erano le sue premesse. L’argentino è rimasto scostante, discontinuo, contraddittorio. Uno capace di segnare il gol che piega la Juventus e qualifica il Siviglia alla finale di Europa League ma che poi si mette a correre con la faccia stravolta e l’indice puntato sul petto, quasi sorpreso per essere riuscito a vestire i panni dell’uomo della provvidenza. Un’antinomia che racconta piuttosto bene la storia di un calciatore che ha corso sempre controvento. La prima volta che il suo nome compare sui giornali italiani è nell’ottobre del 2004. Erik ha i lineamenti levigati e i capelli lunghi e biondi raccolti in un codino. Ha solo 12 anni, ma qualche mese prima ha giocato un torneo in Galizia con le giovanili del River Plate. E il suo mancino ha seminato panico e devastazione nelle difese avversarie. Poco dopo il Siviglia prova ad avvicinarlo, solo che poi arriva il Barcellona.

Erik viene invitato al Camp Nou, posa insieme al suo idolo Ronaldinho, sostiene un provino con le giovanili. E lo passa senza sforzo. Il Barça, che giusto quattro anni prima aveva “soffiato” al Newell’s Old Boys un altro ragazzino dal talento sconfinato come Lionel Messi, prova a chiudere. E gli offre un contratto da 120 milioni di euro. Il presidente del River va su tutte le furie. Prima propone al ragazzo un accordo con uno stipendio nettamente più basso, ma con la possibilità di intascare una percentuale sulla sua futura rivendita. Poi minaccia di ricorrere alla Fifa contro quello che considera un “atto di pirateria infantile”. Da quel momento in poi la storia di Erik sconfina nella mitologia, diventa un misto di leggenda e di realtà. E non sempre è facile capire dove finisca l’una e inizi l’altra. Qualcuno racconta di una partita contro il Platense dove avrebbe segnato addirittura 17 reti. Altri di una gara riacciuffata solo grazie al suo ingresso, nonostante il ragazzo avesse la febbre a 40. Altri ancora sostengono che Lamela abbia preso la Prima Comunione senza fare neanche un minuto di catechismo. Questione di priorità. Il sabato si giocava al futbol. Ma si andava anche in oratorio. Così il prete del suo quartiere aveva scritto al vescovo chiedendogli esonerare Lamela dal catechismo. Quando tutto sembra definito, l’affare con il Barcellona scoppia come una bolla di sapone.

Ballano troppi quattrini. Sua madre Miriam, che possiede un panificio, e suo padre José, che ha un impianto sportivo con campi da calcetto e padel, temono che il figlio possa essere rapito durante le trattative. Meglio restare a Buenos Aires. Meglio ridimensionare i propri sogni. Cinque anni più tardi Erik debutta con la maglia dei Millonarios. Ma è due stagioni più tardi che si afferma come un calciatore di livello internazionale. Gioca 34 partite e segna 4 reti. Solo che a fine stagione il River Plate sprofonda in B per la prima volta nella sua storia. È una sofferenza indicibile. Erik finisce alla Roma di Luis Enrique. Alla sua prima da titolare, a ottobre, trova subito il gol grazie a un meraviglioso mancino a giro sul palo lontano. È qualcosa di molto vicino all’ostensione del suo talento. Perché in quel gesto c’è molto del suo modo di stare in campo. Erik ama partire da destra per poi accentrarsi, dribblare, tirare in porta con il piede forte. Sembra l’inizio di una storia d’amore, ma dopo neanche un mese Lamela si trova già nella bufera. Contro l’Udinese non passa il pallone a Osvaldo, che lo rimprovera duramente. A fine partita l’ex Fiorentina gli si avvicina e ringhia: “Sono più grande di te e questo non è il River, rispondimi quando ti parlo”. Erik è stizzito: “Chiudi la bocca e falla finita. Non sei Maradona” replica.

Non è esattamente il miglior modo possibile per dialogare con Osvaldo, che gli molla uno schiaffone in faccia. L’anno successivo Lamela diventa uno dei trascinatori della squadra di Zeman. Gioca 33 partite di campionato. E segna 15 reti. Eppure ancora una volta il suo miglior momento personale coincide con un disastro collettivo. Il 26 maggio 2013 la Roma perde la finale di Coppa Italia. Contro la Lazio. Al Tottenham le cose vanno avanti come sempre. Fra bassi inquietanti e alti esaltanti. Dopo appena 9 presenze in campionato si infortuna alla schiena. E starà fuori per 9 mesi, con i tifosi degli Spurs che appenderanno agli alberi di Londra dei fogli A4 con il suo faccione con sopra la scritta “Lost”, scomparso. Con Pochettino va in scena un altro spettacolo. Lamela gioca molto ma segna poco, è importante ma non fondamentale. La storia cambia definitivamente a ottobre 2016.

Nella partita di Coppa di Lega contro il Liverpool subisce un infortunio all’anca. All’inizio non sembra niente di particolarmente grave. Solo che più passano i giorni più il dolore diventa intenso. La situazione si fa pesante. Anche perché due mesi più tardi suo fratello Axel sbatte la testa mentre è in piscina. I danni sono gravi. Per qualche mese il ragazzo non riesce più a muovere le gambe e finisce su una sedia a rotelle. “Sentire la storia di mio fratello mi ha spaventato molto – racconta – Grazie a Dio è sopravvissuto e Mauricio, che è un grande uomo, mi ha permesso di andare in Argentina per stare con lui”. I due fratelli recuperano lentamente. Erik comincia ad avere enormi dubbi. Si sente connesso al fratello, teme di star vivendo un incubo simile. Così si fa visitare dallo staff della Roma, viene operato due volte. E per tornare a giocare gli servono 400 giorni. È l’inizio della fase più complessa della sua carriera. Erik non è più un titolare fisso. Nella finale di Champions League del 2019 guarda tristemente il Liverpool battere il Tottenham imbullonato alla panchina. I gol diventano sempre più sporadici. Nel 2020/2021 segna solo una rete in Premier League. All’Arsenal. Con una rabona in area che gli varrà il Puskas Award per il centro più bello dell’anno. Lo scorso anno i tornanti del calciomercato lo hanno portato a Siviglia. Erik ha continuato a provare a dribblare l’oblio con i suoi colpi illuminanti. Ma non sempre ci è riuscito. Nessuno dei tre allenatori che si sono avvicendati sulla panchina del Siviglia in questa stagione lo ha più considerato un imprescindibile. Così, dopo aver piegato la Juve, ora Lamela sogna di segnare anche alla Roma. E magari di provare a fare in modo che il suo futuro sovrascriva il passato.

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