La notizia della tragica morte di Veronica Amistadi, che si suicida uccidendo il figlio, impone l’obbligo di dipanare le nebbie mediatiche che vanno avallando, nuovamente, la sciagurata equazione che vuole la donna depressa come una potenziale infanticida. La depressione non comporta affatto l’insorgere di istinti omicidi, per i quali è necessaria una volontà e, spesso, una premeditazione. La psicosi puerperale può sfociare in un buco nero capace di risucchiare ogni forma di energia psichica e condurre al suicidio. Tuttavia il chiamarsi fuori non comporta, sic et simpliciter, il desiderio di uccidere il figlio.

Non c’è quella consequenzialità che molti media vanno avallando. Uccidere comporta una scelta. Sono uno psicoterapeuta e psicoanalista. Faccio a tutti gli effetti parte di quel mondo degli ‘addetti ai lavori’ che la depressione delle donne, delle madri, la accoglie, la tratta, la sostiene. Proprio per questo motivo si ripropone qua l’assoluta necessità di puntualizzare elementi che la clinica ci consegna in modo rigoroso: uccidere il figlio non è una conseguenza diretta dello stato melanconico, ma implica un desiderio di morte antitetico all’amore materno, un agire che sconfessa e frantuma l’aver desiderato un bambino al di sopra di ogni altra cosa.

Quando ella scrive: “Sognavo di avere altri figli e magari allargare la famiglia moltiplicando l’amore, adottando un bimbo, ci credevo davvero tanto! Ora non posso fare nulla di tutto ciò, ho da poco sorpassato i 40 anni e sono single”, confessa l’impossibilità di fare fronte ad un’impasse della vita, una separazione forse mai del tutto metabolizzata, un progetto di vita evaporato che apre le porte al buio.

Non è dato sapere se i funesti segnali che facevano presagire questo passaggio all’atto fossero stati adeguatamente recepiti dai propri cari. In questi momenti è necessario che tutta la rete amicale e professionale sia allertata in quanto anche un semplice refolo d’aria può far scaturire la tragica decisone che la vita può bastare così. Il racconto della Amistadi disegna un soffocante recinto nel quale ella si sente prigioniera, ormai arrivata al capolinea, intrappolata. E. F. Wallace scrive: “La persona che ha una cosiddetta ‘depressione psicotica’ (…) si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme”.

Ma clinicamente non possiamo accettare che la narrazione di questa tragedia continui in tanti quotidiani con questa frase: Ha portato con sé il suo piccolo, frase che andrebbe invece sostituita con: Ha scelto di togliere la vita al suo piccolo. Vorrei che cessasse la litania della colpevolizzazione diffusa e delle falangi puntate all’indirizzo del sistema sanitario, dei medici, degli assistenti sociali, degli operatori oggi sotto il fuoco incrociato di improbabili e sgangherate figure semiprofessali le quali, digiune di clinica e di pratica e tronfie di nulla, non hanno la benché minima capacità di distinguere tra i fumi pesanti della depressione e la lucida e calcolata volontà di uccidere. Dico questo perché l’ondata populista e cagnaresca che sta prendendo piede nei media cerca di sostituire il rigore clinico con conati di opinioni personali volutamente viziate dal proprio vissuto e per questo prive di qualsiasi appiglio scientifico.

Validare l’equazione madre depressa=madre infanticida opacizza ed oltraggia gli sforzi titanici di centinaia di donne le quali affrontano quasi a mani nude la depressione pur di salvaguardare la vita e il futuro del figlio. Donne sole, impoverite, trascurate, dimenticate, sfruttate, menate e vilipese, quando non licenziate in tronco per aver osato solo desiderare di diventare madri. Donne che vivono in funzione dei loro figli, e in nome di questo sono capaci di vincere e domare diagnosi di depressione o di profondo disequilibrio. Una mia giovane paziente, che ha voluto la citassi paludandola, mi disse un giorno, appena dimessa dall’ospedale nel quale era ricoverata per una crisi depressiva acuta: “Ci sarò: malata, stanca, ingrassata e sbilenca. Ma mai, mai mio figlio, che amo più di ogni altra cosa, dovrà alzarsi e sapere che sua madre si è arresa al male oscuro”.

E’ in nome di tante storie come questa, di donne che affrontano la melanconia a pugni chiusi e col figlio come orizzonte ultimo, che dobbiamo destrutturare la sciagurata narrazione che le vede tutte quante come potenziali assassine.

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