Nel 2023, supereremo quota 423, forse più. Mi sono dedicato per quasi 40 anni alla questione climatica, avendo iniziato quando la concentrazione atmosferica di CO2 era circa 340 parti per milione. Non posso perciò nascondere un certo scetticismo sulla reale volontà di mitigazione climatica dei governi, della finanza che li controlla, della società liquida, ormai disarmata nei confronti dell’abuso della credulità popolare. Il mondo occidentale si è inoltrato nella foresta delle politiche green dettate dal mercato, ostentando obiettivi affatto velleitari quanto irrilevanti, del tutto marginali nei confronti emissioni antropiche. Senza dimenticare le gravi quanto imprevedibili ripercussioni geopolitiche.

Le grida normative europee sulle auto, per esempio, testimoniano una visione affatto strabica, un tentativo di resuscitare un mercato ormai maturo e saturo. La forzatura tecnologica trascura l’indispensabile rivoluzione di bisogni, abitudini e mode in direzione di consumi più ragionevoli e sostenibili. Incentivando i pachidermi elettrici, trascuriamo i fattori reali dell’inquinamento — peso, potenza e velocità dei veicoli, prima di tutto, e il più banale: quanta strada si fa. E oltraggiamo l’assetto storico del territorio, ispirandoci ciecamente al modello americano, che condiziona l’intero occidente. Con una eccezione.

In Giappone, l’obiettivo principale è la riduzione dei consumi specifici. Per esempio, entro il 2030 i nuovi veicoli dovranno essere capaci di percorrere almeno 25,4 chilometro con un litro di benzina. Meno si consuma, meno si emette, una banale verità che sfugge alla Commissione Europea. Per consumare meno, bisogna correre meno, guidare in un traffico più fluido e, soprattutto, pesare meno. La tassazione nipponica della motorizzazione privata è da sempre congruente con questo obiettivo. Il calcolo della tassa annuale di possesso si basa su vari parametri. Primo di tutto, il peso. E l’imposta cresce anche al crescere del peso del veicolo. Circa 60 euro a tonnellata, da giovane. Con l’età dell’auto aumenta: a 18 anni la tassa è del 50 percento più alta.

Il secondo parametro è la cilindrata. Un’auto con motore da un litro paga 216 euro, una da 5 litri circa 800. Anche qui l’imposta cresce con l’età: dopo 13 anni aumenta del 20 percento. A seconda della prefettura di residenza, ci sono poi altre tasse. Per esempio, un ibrido Toyota CH-R da due litri di cilindrata può pagare circa 1.100 euro all’anno, mentre per guidare un pesante e potente Suv, ancorché plug-in, bisogna affrontare un esborso stratosferico.

Anche la tassa di revisione, obbligatoria ogni tre o due anni, è scalata su questi criteri. Ma non vale per tutti. Invero, le auto giapponesi sono classificate in due grandi categorie: le auto normali e quelle leggere (keijidosha), soggette a tasse e regolamenti diversi. Le auto Keijidosha, chiamate anche Kei Car, sono contraddistinte dalla targa gialla. Si tratta di veicoli piccoli che devono rispettare rigide restrizioni di dimensioni, peso e potenza. In cambio, godono di portentose agevolazioni fiscali, sia in fase di acquisto sia nel corso della loro gestione. Hanno pedaggi e oneri assicurativi agevolati; e, perfino, regole di proprietà rilassate. Tutto ciò le rende più economiche e semplici da possedere rispetto alle auto normali, quelle con la targa bianca.

Le dimensioni di una Kei Car sono ridotte: lunga non più di 340 centimetri e larga non più di 148. La cilindrata non deve superare 0,66 litri e la potenza 47 kilowatt. Oltre che a buon mercato in fase di acquisto, la sua gestione è molto economica: già oggi una Kei Car consuma attorno a 3 litri di benzina ogni 100 chilometri. Non soltanto è un veicolo poco inquinante e comoda da elettrificare, ma la contenuta impronta al suolo rende facile il parcheggio, agile la manovra, parca la richiesta di spazio in garage o per un box. Sono auto assai meno invadenti nel paesaggio urbano, rurale, litoraneo e montano, a fronte degli obesi e infestanti mezzi oggi di moda. E meno pericolose perché meno veloci.

Potrei citare un capolavoro come l’Iso Isetta Turismo o la BMW Isetta 250 (v. Figura 1), l’ACMA Vespa 400 disegnata da Corradino d’Ascanio e perfino il Mivalino KR 175, ma sono troppo giovane per averli potuti guidare.

La mia Dyane 4 rossa del 1970 era lunga 387 centimetri e larga 150, pesava meno di 600 chilogrammi, il suo motore da 0,435 litri e 20 kilowatt consentiva l’ebbrezza dei cento all’ora. Per anni ha viaggiato da Genova ad Arcavacata di Rende, consumando 50 litri di super per coprire i mille chilometri in una dozzina di ore, dopo aver imbarcato a Pisa un collega che sarebbe diventato un giorno rettore di quell’ateneo. Sono un inveterato laudator temporis acti? Probabilmente sì, con una curiosità: se la moda odierna suggerisce di evitare le parole in lingua foresta, come fanno da sempre i francesi tuttora incazzati con il nostro Bartali, il latino è ancora permesso? Chiudo parentesi e faccio ora un confronto più serio, tra l’auto “standard” europea di ieri e quella di oggi.

Nel 1969, l’auto europea più venduta era stata la Fiat 128, un capolavoro di tecnica, stile ed economia che fece scuola. Aveva una impronta di 6,1 metri quadrati, un ingombro di 8,2 metri cubi, consumava 6,8 litri di benzina normale ogni cento chilometri e pesava 750 chilogrammi. Nei primi tre mesi del 2023, l’auto più venduta è stata la bellissima Tesla Model Y, con una impronta di 9,1 metri quadrati, un ingombro di 14,8 metri cubi. Consuma (stime riportate da Al Volante) circa 17,85 chilowattora ogni cento chilometri e pesa 1.995 chilogrammi. Lascio agli esperti l’arduo compito di confrontare 6,8 litri di benzina e 17,85 chilowattora. In cinquant’anni, i veicoli europei “standard” si sono allargati del 49 percento e ingrossati del 84 percento (v. Figura 2).

E sono ingrassati del 166 percento, mentre l’Europa non è più larga, né più grossa o grassa di quella di una volta, né le strade, le piazze e i garage delle città europee. E neppure gli europei, la cui statura media è cresciuta in un secolo di soli 10 centimetri, un aumento del sei per cento.

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