Tira una strana aria al Giro d’Italia, un dualismo che non è quello, annunciato e atteso, fra Remco Evenepoel e Primož Roglič. Inatteso almeno nei modi perché, seppur sul tema si sia sussurrato varie volte negli anni, stavolta è stato plateale, in onda sulla Rai. Sul banco d’accusa del “Processo alla Tappa” è stata chiamata la lunghezza delle tappe come imputata principale. Colpevole di attentare alla spettacolarità di questo sport, del Giro d’Italia nello specifico e, precisando ancora di più, alla resa televisiva in una diretta integrale.

Se i 202 chilometri piatti della seconda tappa, la Teramo-San Salvo, avevano fatto scattare qualche colpo di tosse tra gli animatori del Processo, a conclusione della terza è andata in scena la tenzone fra Mauro Vegni, direttore del Giro, e la squadra Rai, capitanata da Alessandro Fabretti, a perorare questa campagna anti sbadiglio.

Tappe di 120 chilometri, sprint con abbuoni ai Gpm e altre varianti di soluzioni “originali”, l’accusa sembrava voler suggerire questo a un esterrefatto Vegni le cui espressioni facciali valevano da sole a far comprendere i dubbi e le perplessità che gli si palesavano davanti. Due le criticità di una “sommossa” del genere: 1) volersi sostituire agli organizzatori in nome della gente che segue, e Vegni ha giustamente risposto che “la gente la ascoltiamo anche noi, sulla strada e nelle piazze”. Aggiungo io che più strada fa il Giro, più gente raggiunge e fa scendere in strada; 2) sembra che si sia voluta rendere pubblica una polemica che poteva essere argomento di riunioni tecniche fra Rcs e Rai, come si dice, i panni sporchi si lavano in casa.

È stato, e credo sarà, uno strappo duro da superare senza strascichi. Tornando alla questione noia, se il problema ricade sul prodotto televisivo che diventa difficile da gestire, si rivedano i termini dei contratti, la Rai rinunci all’integrale e trasmetta solo gli ultimi 50 chilometri delle tappe cosiddette “da calma piatta”.

Qui mi fermo perché io non conosco questi termini e non voglio fare l’errore di sostituirmi a chi dovrebbe saper fare il proprio mestiere, da una parte e dall’altra. Il Giro esiste dal 1909, il Processo dal 1963 e la tv aveva già abbracciato e ampliato la popolarità della Corsa Rosa. Chissà con che gioia, gli appassionati degli anni 60, avrebbero guardato in televisione 200 o anche 250 chilometri, dal primo all’ultimo metro, senza mai annoiarsi.

Il Giro d’Italia è una competizione sportiva ma racconta anche i territori, un Paese, la sua gente. Chi patisce la noia, se non s’addormenta, usi pure il telecomando.

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