di Claudia De Martino

L’Unione Europea ha investito milioni di euro in Tunisia dopo le Primavere arabe (2011), considerando il “Paese dei gelsomini” l’unico esempio di transizione democratica riuscita tra tutti i Paesi arabi toccati dalle manifestazioni popolari nel 2011-12. Cifre ufficiali parlano, per il periodo 2014-2020, di oltre 1.9 miliardi di euro in aiuti diretti e 800 milioni di euro in prestiti o programmi di assistenza macro-finanziaria, a cui si somma lo scorso marzo 2022 l’adesione della Tunisia – unico Paese della regione Mena insieme ad Israele – al programma di ricerca e innovazione Horizon, considerato dagli esperti il più grande al mondo con i suoi 95.5 miliardi di euro messi a bando per il periodo 2021-27.

Tuttavia, nonostante le ingenti somme investite avessero tutte come scopo il sostegno alla democrazia, in Tunisia la sopravvivenza di un sistema multipartitico si è rivelata troppo conflittuale e dunque fragile, lasciando scivolare nuovamente il Paese verso un modello di governo autoritario con un uomo solo al comando, diffuso in quasi tutti gli Stati del Maghreb.

Difronte all’ennesima crisi istituzionale dovuta ad un Parlamento estremamente polarizzato tra laici e religiosi, ma soprattutto confrontato ad un’acuta crisi economica – nel 2021, a seguito del Covid, il rapporto deficit/Pil salito al 90.2% del Pil, il turismo era crollato e la disoccupazione ufficiale schizzata a più del 18%, comportando la ripresa di ingenti flussi migratori (15.000 circa all’anno) – il 25 luglio 2021 la Tunisia ha infatti subito un colpo di stato in cui il Presidente in carica, Kais Saied, ha introdotto lo stato di emergenza e avocato a sé tutti i poteri dello Stato, costretto alle dimissioni il Primo ministro, esautorato il Supremo consiglio della magistratura per decreto e fatto approvare con referendum (ottobre 2021) importanti revisioni costituzionali, e infine ha dapprima congelato e poi dissolto il Parlamento, privando gli ex deputati dell’immunità politica.

Il nuovo “uomo forte” della Tunisia, noto anche all’opinione pubblica come “RoboCop”, è stato infatti abilissimo a capitalizzare sulla disperazione dell’opinione pubblica, a maggioranza oggetto di un drastico peggioramento delle condizioni di vita e preoccupata, a seguito del blocco alla vendita del grano imposto dalla guerra russo-ucraina, dall’inflazione e dal timore per la difficoltà di procurarsi beni alimentari anche di prima necessità (sondaggio condotto dal quotidiano Al Monitor e Premise poll, marzo 2023).

Senza abolire formalmente la democrazia (sull’esempio fornito da altri autocrati della regione, ad esempio Assad in Siria), Saied ha indetto nuove elezioni parlamentari, che si sono tenute nel dicembre 2022 registrando la più bassa affluenza di tutti i tempi (ferma all’11%), per poi avviare, una volta ricevuta una legittimazione democratica formale, una stagione di arresti di avversari politici attualmente entrata nel pieno. Nel mese di marzo, 30 personalità di varia estrazione, tutte dissidenti o critiche del nuovo regime – tra cui soprattutto attivisti, avvocati, giudici e politici, ma anche radiocronisti, come Noureddine Boutar, speaker della celebre stazione radio Mosaique – sono state arrestate, mentre a metà aprile le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nelle sedi del partito islamista En-Nahda per sequestrare documenti e infine, il 17 aprile, per arrestare lo stesso leader storico del partito, Rachid Ghannouchi, per “cospirazione contro lo Stato”.

Il partito islamista è infatti stato il principale protagonista del cosiddetto “decennio nero”, ovvero i dieci anni di regime democratico intercorsi tra il 2011 e il 2021, che avrebbero portato il Paese, secondo molti tunisini, sull’orlo della bancarotta e dell’emigrazione di massa. Il militante tunisino Hakim Fekih scrive infatti che en-Nahda e il suo leader sono considerati i principali responsabili dell’attuale stato di crisi in Tunisia anche da molti partiti di sinistra e dall’Ugtt, che pure protestano contro l’autoritarismo del Presidente: è dunque gioco facile per il Presidente tunisino, che si presenta come apartitico, indipendente e super partes, strumentalizzare l’odio nutrito da gran parte dell’opinione pubblica laica nei confronti del partito islamista, identificandolo come il “capro espiatorio” di tutti i problemi economici e sociali sofferti dalla Tunisia.

E’ chiaro che il “bon éleve” delle democrazia europea non è più tale e che, anzi, gli islamisti tunisini rischiano, esattamente come avvenuto in Egitto nel 2013 (si spera solo in modo meno cruento) di rimanere vittime di un regolamento di conti interno che avverrà senza proteste da parte della comunità internazionale, troppo impegnata a negoziare con il governo Saied il blocco delle partenze migratorie, il vero contributo che la Tunisia può fornire al mercato globale. L’esempio dell’accordo Ue-Turchia del 2016 rappresenta infatti un importante precedente per tutta la regione mediterranea nei suoi rapporti con l’Europa: i 6.6 miliardi di euro sono lì a dimostrare che l’Unione è disposta a pagare qualsiasi cifra pur di bloccare il flusso di migranti in entrata, tollerando anche violazioni dei diritti umani e evitando di intervenire negli affari interni.

La giornalista Lauren Jackson del New York Times ha definito questo potere come “la leva politica dei Paesi di transito”, che si giocano la loro funzione di filtro migratorio in cambio di vantaggi economici e opacità politica, ed è evidente che, finché vi sarà solo la minaccia migratoria a dettare le priorità della politica estera Ue, non vi sarà alcuno spazio per valori, spesso retoricamente sbandierati, come la difesa della democrazia e dello stato di diritto.

Viene da chiedersi se la “fortezza Europa” accerchiata da una cintura di Paesi sempre più autoritari e instabili, la cui unica funzione è bloccare i migranti, si possa davvero sentire più sicura in un Mediterraneo militarizzato.

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