Secondo il rapporto sulla pena di morte in Iran, prodotto per il quindicesimo anno consecutivo dall’organizzazione non governativa Iran Human Rights e da Ensamble contre la peine de morte, nel 2022 sono state eseguite almeno 582 condanne a morte, con un aumento del 75 per cento rispetto alle 333 del 2021.

Questi numeri devono essere preceduti da un “almeno”: l’88 per cento di tutte le esecuzioni non è stato reso noto dalle autorità di Teheran ed è stato individuato solo grazie alle informazioni fornite da avvocati, familiari e da altre fonti non governative.

La metà delle impiccagioni – questo è il metodo ricorrente di esecuzione delle condanne a morte – ha riguardato il reato di omicidio, il 44 per cento reati di droga. Il ritorno massiccio della forca come unica strategia di contrasto alla droga spiega in larga misura lo spaventoso aumento delle esecuzioni nel 2022: 256 impiccagioni, rispetto alle 126 del 2021 e a una media annuale di 24 nel periodo 2018-2020.

Almeno 15 prigionieri sono stati messi a morte per reati contro la sicurezza nazionale: tra questi, due manifestanti, impiccati alla fine dello scorso anno, per “moharebeh”, il reato-omnibus di “guerra contro Dio”.

Nel 30 per cento dei casi, i prigionieri impiccati erano dell’etnia baluci, che rappresenta sì e no il 5% della popolazione dell’Iran.

Sebbene i dati a livello globale non siano ancora disponibili (Amnesty International presenterà il suo rapporto sulla pena di morte nel mondo tra un mese), l’Iran dovrebbe essere ancora una volta l’unico stato ad aver messo a morte minorenni al momento del reato, in violazione del diritto internazionale.

Il numero delle esecuzioni dello scorso anno avrebbe potuto essere enormemente più alto, oltre il doppio, se in 624 casi le famiglie della vittima di omicidio non avessero perdonato il colpevole.

I dati relativi ai primi mesi del 2023 ci dicono che anche questo sarà un anno terribile: le impiccagioni sono state già oltre 150.

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