La gestazione per altri (gestational surrogacy) è una vera e propria industria mondiale che nel 2022 ha raggiunto un valore stimato di 14 miliardi di dollari, secondo dati recenti riportati dalla testata di notizie economiche CNBC. Ed è solo una fetta del mercato globale delle tecnologie di riproduzione assistita (ART), il cui valore stimato oscilla a seconda degli osservatori tra 25 e 36 miliardi di dollari circa nel 2022, in espansione esponenziale per molteplici fattori. Prima dell’invasione della Russia, l’Ucraina era il secondo Paese dopo gli Stati Uniti per “offerta” di forza lavoro riproduttiva nella gestazione per altri. Oggi, sempre secondo i dati forniti dalla CNBC, la Georgia sta prendendo il posto dell’Ucraina e in Messico si assiste a un boom.

Data la tendenza in crescita e le forti differenze tra legislazioni nei Paesi europei, la Commissione europea ha formulato una proposta di regolamento sul riconoscimento delle situazioni familiari transfrontaliere, misura volta a tutelare le persone nate dalle tecniche di riproduzione assistita. Il recente voto contrario del Senato a maggioranza di centro-destra, con cui l’Italia ha respinto la proposta unendosi al gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia), insieme ad altre iniziative politiche del governo Meloni su questa materia, ha rimesso in moto il dibattito pubblico.

Ne parliamo con Angela Balzano, bioeticista, ricercatrice al Dipartimento in Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Il suo ultimo libro, edito nel 2021 da Meltemi, si intitola “Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane”. Sono usciti a cura sua le traduzioni italiane dei lavori più recenti di Donna Haraway e Rosi Braidotti, oltre che Biolavoro globale, in cui Cooper e Waldby propongono una lettura marxista e foucaltiana della gestazione per altri.

La proposta di Cooper e Waldby, che fai tua, è di considerare le gestanti – tutte, non solo quelle che portano avanti gravidanze per altri – come agenti di forza lavoro riproduttiva, che può essere più o meno alienata. Quali sono le coordinate di questo ragionamento e che conclusioni politiche ci consente di trarre?
Condannare la GPA descrivendola come una forma di “mercificazione della riproduzione biologica”, vuol dire assumere acriticamente l’assunto in base al quale il lavoro riproduttivo deve essere svolto senza alcuna retribuzione. Storicamente il lavoro riproduttivo-affettivo delle donne è stato gratuito, estorto o spontaneo che fosse, mai retribuito né ricompensato. Per rimanere all’Occidente e a tempi relativamente recenti, un intero sistema di produzione, il fordismo, si è retto sulla garanzia della riproduzione a costo zero. Sia la persona gestante che riceve il compenso alla consegna del figlio/a, sia la persona/coppia commissionante che lo/la riceve solo pagando, esplicitano il rimosso della nostra economia: la riproduzione è parte integrante del ciclo produttivo. L’accanimento contro le tecniche di Gpa rischia di occultare un più stridente paradosso: ancora oggi gli ambiti professionali in cui le donne vengono maggiormente impiegate sono quelli dell’economia informale, quelli prossimi alla cura, alla riproduzione e alla sessualità. Come ha dimostrato Antonella Picchio, economista, ancora oggi il totale del lavoro produttivo pagato è minore del totale del lavoro riproduttivo non pagato. Si tratta nientedimeno che di sovvertire il modello, di cominciare a considerare la produzione come funzionale alla riproduzione e non viceversa.

Perché è così difficile, per la nostra cultura, vedere il lavoro riproduttivo come lavoro e perché l’utero dovrebbe avere uno statuto diverso da altre parti del corpo?
Nonostante la morale dominante rimanga ancorata a una concezione di “corpo intero” di cui teoricamente l’individuo sarebbe sovrano, il capitalismo avanzato ha trasformato in plusvalore l’intera vita, umana e non, e i corpi stessi in materiali biologici isolabili in “pezzi” e spendibili sul mercato. Oociti e uteri sembrano oggi vivere di una propria schizofrenia: acquistano valore nei circuiti transnazionali dei mercati della riproduzione grazie alla loro scarsità, come “materia prima” ma non come prodotti del lavoro delle donne, al contempo vengono difesi in quanto “organi” e “cellule” dallo statuto speciale, quasi sacro. Si trovano a metà tra la messa a valore, cioè la benedizione del mercato, e le intransigenti reazioni conservatrici, cioè la condanna della morale. Eppure, che siano messi a produzione nella cornice della bioeconomia o protetti nella cornice della religione cattolica, oociti e uteri sono sempre astratti dai corpi-soggetto cui appartengono e che li producono.

L’utero è forse l’organo di esercizio dei dispositivi di controllo e assoggettamento su cui governi e mercati si sono più accaniti. Non a caso i movimenti femministi degli anni Settanta scelsero lo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io” per rivendicare un più generale diritto a disporre liberamente del proprio corpo. Oggi come ieri sulle scelte riproduttive incombe l’ombra del “prodotto del concepimento”, inteso impropriamente come persona. Che si tratti di aborto o di GPA con questo governo tornano gli argomenti in difesa del “non nato”, del potenziale nascituro, presentato come forma di vita estremamente vulnerabile e per questo da tutelare. Le persone che portano avanti la gravidanza sono in entrambi i casi sullo sfondo, a stento riconosciute quali soggetti pieni, capaci di autodeterminazione in materia di salute e riproduzione.

La gran parte dei genitori intenzionali appartiene alla parte più ricca del mondo. D’altra parte, le gestanti che vendono la propria forza lavoro riproduttiva vivono spesso in contesti a basso reddito ed è noto che la retribuzione ottenuta per questo tipo di lavoro può consentire un salto di qualità delle proprie condizioni di vita. Ti sei fatta un’idea di quali siano gli strumenti idonei per tutelare queste lavoratrici?
Se davvero si vuole che al mondo nessuna venda più il corpo o pezzi di esso, dall’utero al cervello, allora occorre elargire un reddito minimo universale. In sua assenza, o si regolamenta la riproduzione biologica come lavoro che può essere esternalizzato, o si corre il rischio della diffusione di accordi privati non trasparenti, con compensi “in nero”. I contratti, con tutti i loro difetti e di certo perfettibili, costituiscono uno strumento di garanzia per le soggettività coinvolte in una Gpa. Il divieto sottrae potere contrattuale alle gestanti, le riconduce nella sfera privata della famiglia, laddove i rapporti asimmetrici tra i generi possono esporle a rischi più elevati e proprio laddove il loro lavoro riproduttivo è preteso in forma gratuita – quando non completamente estorto.

Cooper e Waldby descrivono la surrogacy come una forma di lavoro clinico, troppo spesso non riconosciuta in quanto tale. Le gestanti sono lavoratrici che prestano servizi soggettivati, incarnati nei processi biologici in vivo ma non in loro esauriti. Le gestanti e le fornitrici di oociti, come le cavie umane delle sperimentazioni cliniche, impiegano il loro capitale umano in cambio di reddito e per ottenerlo corrono dei rischi biologici (e psicologici) spesso superiori a quelli connessi ad altre professioni. La scelta di correre tali rischi può essere più o meno libera e consapevole a seconda delle soggettività in questione e del contesto geopolitico in cui sono inserite, e per questo occorrerebbe un quadro normativo coerente a livello internazionale, per esempio che non permetta alle diseguaglianze economiche globali di influire pesantemente sull’ammontare dei compensi.

La soluzione potrebbe consistere nell’incentivare la diffusione di cliniche della fertilità che permettano l’accesso alle nuove tecnologie riproduttive alle soggettività Lgbtqi+ sulla base dei principi etici della trasparenza, della co-responsabilità e della libera scelta di gestanti e fornitrici/ori di contribuire alla nascita di bambin* anche in cambio di un compenso, nel rivedere la tradizionale interpretazione di genitorialità fondata su sole basi biologiche, lavorando affinché sia culturalmente oltre che legalmente ammissibile il riconoscimento della genitorialità sociale.

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