L’ex primario di Urologia di Teramo ha sterminato la famiglia per poi togliersi la vita. La drammaticità dell’evento, come spesso avviene, lascia interdetta l’opinione pubblica la quale, incredula che tali fatti possano accadere in consessi ‘normali’, va immediatamente alla ricerca di una causa accettabile che plachi l’angoscia di sapere che, in qualsiasi zona della città, in qualunque famiglia, la morte può presentarsi sottoforma di strage familiare.

In questo caso, come purtroppo in tanti altri, il significante veicolato da tutti o quasi i media per saldare un rassicurante nesso causa effetto tra la vita irreprensibile del professionista e la mattanza di lui portata a termine, è la diagnosi di depressione. Ne ho scritto più e più volte, anche su questo blog: la depressione è un abisso nero che risucchia il soggetto sino al desiderio di chiamarsi fuori ma, in assenza di acclarata patologia mentale, togliere la vita ad altri comporta sempre una scelta. Quante volte sentiamo nelle cronache dire “stermina la famiglia, ed era in cura per depressione”, salvo poi imparare che il soggetto in questione soffriva di tutt’altro.

Ciò accade perché uccidere senza un ‘vizio’ di mente spaventa, motivo per il quale il consesso sociale deve trovare una etichetta che possa permettergli di non fare i conti con verità spesso inconfessabili: si uccide per invidia, per un senso perverso di possesso, per senso di prevaricazione. Ma non per depressione. Bisogna togliere alla depressione quella nera fama di generatrice di morte altrui che anche stamattina i quotidiani vanno ripetendo, ribadendo qua quello che in altri articoli ho cercato di sottolineare: il male oscuro non è in sé predittivo di agiti omicidi. Non muta de facto in assassino chi ne è affetto, la melanconia non genera carnefici che sterminano vite innocenti.

Da quel che sappiamo, il signor Vicentini è andato incontro ad uno scompenso progressivo, legato alla malattia del figlio e ad altri lutti che gli hanno forse reso insostenibile il peso della vita. Stare accanto ad un familiare affetto da una patologia degenerativa significa spesso entrare in una zona d’ombra dell’esistenza, un mondo a parte, risucchiati dalla lenta progressione dell’infermità la quale, pezzo dopo pezzo, consuma e necrotizza le parti di chi accudisce l’infermo. Non sono infrequenti i casi nei quali chi accudisce un malato, vistosi alla fine della sua esistenza, trascina con sé nella morte chi ritiene non essere più in grado di sopravvivergli. E su questo andrebbe aperto un dibattito a parte.

In questo caso abbiamo qualcosa in più, qualcosa di diverso. Il suddetto sceglie anche di dare la morte a tutti i membri della famiglia, di certo colpiti come lui dallo spegnimento del figlio, certo desiderosi di vivere. Questo ci porta fuori dal raggio di azione della depressione che è spesso autodistruttiva, ma non cerca la morte altrui.

Questa malattia, sottovalutata, non riconosciuta, banalizzata, e soprattutto non curata, è alla base di gran parte dei circa 4.000 suicidi che avvengono ogni anno in Italia. Nel caso suddetto, è possibile invece ipotizzare la slatentizzazione di qualcosa che ha a che vedere con uno stato psicotico, al netto di quelli che gli inquirenti definiscono “messaggi farneticanti o deliranti” lasciati dall’urologo. Un probabile carico costante e durevole che, alla fine, ha fatto cedere la struttura implodendo, prodromo ad uno stato di accerchiamento e disperante colpevolizzazione dell’altro che si traduce in un passaggio all’atto di tipo omicida.

Ripeto, è solo l’indicazione di una via, che nulla sa di tanti altri elementi (fattori economici, rapporti interpersonali a noi non noti, o altro ancora) che potrebbero, forse, fare maggior chiarezza sulla dinamica di questo pluriomicidio.

Un’indicazione che si rende tuttavia necessaria alla pubblica opinione falsamente indirizzata dai media verso l’ambito depressivo, soluzione facilmente assimilabile e accettata, ma che poco a che fare con la clinica. Si sta verificando per la tragedia di Teramo ciò che accadde l’infanticidio della signora Marisa Charrère, nel quale la depressione venne equiparata de facto all’atto omicida, attenuandone le responsabilità. Anche nel caso della signora Panarello, che uccise il piccolo Loris, una nota scrittrice si sosteneva che “la depressione che colpisce le madri e che a vari livelli riguarda tutte è la causa di ciò che è avvenuto”.

Sappiamo che il sovrapporsi del tempo pandemico alla passata crisi economica, ha rafforzato la già vistosa correlazione tra perdita del lavoro e tendenze depressive e suicidarie. Ma additare la depressione a causa di ogni omicidio o pluriomicidio che scorre sui media, significa un non valerne sapere di un male oscuro che permea gran parte degli strati del legame sociale, per il quale non serve disinformazione o banalizzazioni mediatiche, quanto piuttosto un severo progetto di prevenzione e cura da mettere in campo sin dall’adolescenza.

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