“Il governo può far ricorso all’adozione dei decreti-legge soltanto in casi straordinari di necessità ed urgenza”. È questo il requisito costituzionale dimenticato dal governo Meloni che ha inserito di fatto uno scudo fiscale nel decreto bollette. “Si tratta di una prassi cui ahimè siamo abituati, in assoluta continuità con un modo disinvolto e degenerato di utilizzazione della decretazione d’urgenza” spiega Gaetano Azzariti, professore di Diritto Costituzionale alla Sapienza. “Di abuso di questo strumento se ne parla dagli anni ’80, sebbene il governo Meloni abbia ora conquistato un record. Guardando i dati di Open polis fino all’8 marzo l’attuale esecutivo ha superato tutti i precedenti governi nella media di decreti legge. In appena quattro mesi ha approvato 18 decreti legge, il che vuole dire 4,5 decreti legge al mese, più di un decreto legge a settimana: questo è un dato costituzionalmente insopportabile. Pensare che ogni settimana si debba intervenire d’urgenza vuol dire arrendersi all’emergenza perpetua, rappresenta una contraddizione di termini, la fine dell’ordinario andamento delle cose. Questo governo ha superato persino la media dei decreti legge dei governi Draghi e Conte, periodi in cui almeno poteva dirsi che un’emergenza permanente era reale ed evidente: c’era la pandemia. Si dimostra così, per tabulas, come la decretazione d’urgenza sia diventato il modo assolutamente ordinario di governare, e questo è un rischio ormai avvertito da tutti”. Il costituzionalista ricorda, in proposito, quanto avvenuto a febbraio quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sì promulgato la legge di conversione del decreto Milleproroghe, ma lo ha accompagnato con un lettera di severo monito di denuncia di una prassi degenerata. “La stessa premier, tra gli altri, ha tradito le sue buone intenzioni, che l’avevano mossa a denunciare l’abuso di questo strumento quando era all’opposizione e, una volta assunta la carica di presidente del Consiglio, a prendere un’iniziativa in dialogo con i presidenti delle Camere – apprezzata proprio dal Presidente Mattarella – per cercare di ridurre il numero delle decretazioni d’urgenza. A queste buone intenzioni, però, sono seguiti pessimi fatti. C’è stata una assoluta continuità, anzi accelerazione nell’uso incontrollato di questo strumento”.

Ma da cosa dipende questo abuso?
Dalla diffidenza nei confronti dell’attività del Parlamento? Dalla sfiducia nella solidità della maggioranza? Dalla comodità di uno strumento che impone senza mediazioni le decisioni del governo? Dalla difficoltà o incapacità di governare con gli strumenti ordinari?

Questa maggioranza ha vinto le elezioni e lo slogan della leader di Fratelli d’Italia era “Siamo pronti”.
Tutta questa preparazione non mi sembra ci sia. Non parlo dell’indirizzo politico che un governo di destra vuole realizzare, rilevo solo che dal punto di vista delle regole costituzionali, che è ciò che a me compete valutare, non vedo alcuna prontezza, anzi avverto un elevato tasso di approssimazione. Non solo il profluvio di decreti legge lo dimostra, ma anche il loro contenuto privo dei requisiti costituzionalmente richiesti. Sin dal primo: quello che, tra le altre cose, interveniva sui rave, senza, anche in quel caso, nessun presupposto d’urgenza. L’unico rave allora previsto a Ravenna era stato disdetto, l’estrema urgenza era francamente inesistente. Se si voleva definire una normativa più rigorosa nei confronti di alcune manifestazioni si poteva predisporre un disegno di legge per poi farlo approvare dal Parlamento.

Siamo di fronte a un Parlamento depotenziato?
Annullato, direi. In questo momento c’è estrema necessità di ridare autorevolezza all’organo legislativo. È questa una crisi del sistema costituzionale che risale nel tempo. Leopoldo Elia, già nel 2000 denunciava la “fuga dal Parlamento”. Una fuga che non si è mai interrotta e rischia ormai di privare di senso le Camere. Si poteva pensare che alcune modifiche costituzionali avvenute nelle scorse legislature, a iniziare dalla riduzione del numero dei parlamentari, potessero segnare una svolta, potessero ridare importanza e un ruolo più incisivo al Parlamento. Per ora non sembra sia così. Una maggioranza in grado di credere nella propria forza e capacità di governo, consapevole delle degenerazioni del passato e della necessità di un riequilibrio dei poteri, dovrebbe in primo luogo proporsi di riattivare i canali parlamentari. Se non lo fa significa che ha paura, nonostante voglia mostrare forza in realtà è debole, non si fida di se stessa. E allora usa i decreti per mettere in riga la propria disordinata maggioranza, rifiutando il confronto con l’opposizione, affermare le proprie decisioni senza essere in grado però di rispettare la dialettica parlamentare.

C’è un disordine nei ruoli, quindi?
Esattamente. Il nostro ultimo decreto lo dimostra. La giurisprudenza costituzionale, ma anche il capo dello Stato – ciascuno nell’ambito delle proprie responsabilità – hanno evidenziato che i decreti legge non possono essere utilizzati per porre in essere riforme di carattere strutturale, ma solo per affrontare questioni urgenti e con misure direttamente applicabili. Se si vuole fare una riforma tributaria (riforma strutturale e non legata all’immediato) non c’è una sola ragione per non farla con un disegno di legge. Voglio anche ricordare come la Corte costituzionale e lo stesso presidente della Repubblica hanno più volte richiesto che si rispettasse il criterio dell’omogeneità sia in sede di emanazione del decreto che successivamente in sede di conversione in legge. Non può dirsi omogeneo un decreto che riguarda le bollette ed “infila” anche misure tributarie. Potrebbe sempre dirsi che il governo Meloni non si inventa nulla di nuovo, si limita ad aggravare, trasformando l’eccezione in una regola assoluta.

I dati dicono che è così?
Sempre i dati Open polis ci dicono che tra le leggi di iniziativa governativa più del 90% è costituito da conversioni di decreti legge. Una distorsione insopportabile denunciata non solo dai costituzionalisti, ma anche dai garanti della Costituzione. Mattarella nella lettera al presidente del Consiglio è stato assai esplicito. Sarebbe assai opportuno che l’attuale governo seguisse le sollecitazioni del capo dello Stato.

Il presidente Mattarella può non firmare?
Il presidente sta manifestando le sue preoccupazioni nei modi suoi propri, non contrapponendosi al governo. Entro questo limite ha però manifestato chiari elementi di allarme. L’ipotesi di rifiuto di emanazione di un decreto legge è fatto più unico che raro. Il rifiuto ha poco spazio nella storia costituzionale italiana, il caso più noto è quello “Englaro”, ma non fa “precedente”: il Capo dello stato opera con strumenti di intermediazione più che con strumenti di veto. Bisognerebbe ascoltarlo maggiormente: sta suonando campanelli d’allarme da quando è nato questo governo. In modo discreto, ma non per questo meno preoccupante. Basta leggere con attenzione la lettera di dissenso sul Milleproroghe, ovvero ascoltare le dichiarazioni sui fatti di Cutro. Certo non è escluso che il presidente possa giungere a rifiutarsi di promulgare la conversione di quest’ultimo decreto una volta approvato dal Parlamento, rinviandolo alle Camere. Si potrebbe dunque giungere a una situazione in cui il presidente si trovi costretto ad attivare i suoi poteri più incisivi. Proprio questo dovrebbe indurre il governo a prestare ascolto ai ripetuti richiami presidenziali. Sarebbe il caso che si evitasse di forzare troppo la mano e si ritrovasse la via ordinaria segnata della Costituzione.

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