“Quale pensate sia, alla fine, la fine di questa partita?”. Lo ha chiesto alcuni giorni fa Ro Khanna al vice segretario alla difesa Colin H. Kahl, durante una seduta della Commissione Forze Armate. Khanna è un deputato democratico, appoggia la politica dell’amministrazione in tema di guerra in Ucraina e ha sempre votato le richieste di finanziamenti e armi che Joe Biden ha inviato al Congresso. Anche Khanna si chiede però cosa stia succedendo ora. Per quanto tempo gli Stati Uniti continueranno a inviare milioni di dollari in armamenti a Kyev? Oltre alle armi, esiste un piano per negoziare la pace? I crescenti dubbi della politica di Washington, cui danno voce democratici e repubblicani insieme, si accompagnano però a segnali ormai piuttosto chiari di tensioni tra l’amministrazione americana e il governo ucraino, che potrebbero preludere a un significativo cambio di politica da parte statunitense.

Durante la visita a sorpresa a Kyev, Joe Biden ha promesso di appoggiare l’Ucraina “per tutto il tempo che sarà necessario”. Il concetto è stato ribadito dal segretario di stato Antony Blinken nel colloquio improvvisato con il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov a margine del G20 di New Dehli. La scelta di riaffermare il sostegno a Kyev, pubblicamente e con questa forza, ha ovviamente un senso preciso. Il governo USA è convinto – lo ha per esempio detto alcuni giorni fa la direttrice della “National Intelligence” Avril Haines – che Vladimir Putin stia cercando di trasformare la guerra in un conflitto a bassa intensità, lungo e logorante, che porti a un progressivo disimpegno di Europa e Occidente. A quel punto, l’Ucraina sarebbe per il Cremlino una preda molto più facile. Di qui, appunto, le dichiarazioni pubbliche dei vertici dell’amministrazione USA – che non nascondono comunque l’emersione, sempre più chiara, di elementi di attrito, anche di divisione, tra Washington e Kyev.

L’ultimo episodio che scuote i rapporti tra i due alleati riguarda l’assedio di Bakhmut. Gli ucraini ci stanno impiegando enormi risorse. Gli americani la ritengono una scelta senza grande valore strategico. Le ragioni che spiegano la disperata difesa di Bakhmut sono state spiegate alcuni giorni fa da Mykhailo Podolyak, uno dei più stretti collaboratori di Volodymir Zelensky. La difesa di questa città dell’Est dovrebbe consentire alle truppe ucraine di guadagnare tempo, in attesa dell’arrivo di ulteriori armamenti occidentali e in vista di una futura contro-offensiva. Al tempo stesso, i russi hanno concentrato a Bakhmut le loro migliori unità. Le perdite, per loro, sono state enormi (si parla di un numero altissimo di soldati russi morti, tra i 20 e i 30mila). Comunque vada, difendere in modo così strenuo Bakhmut sarebbe dunque servito, e molto, allo sforzo bellico ucraino. Della cosa non sono assolutamente convinti gli americani. “Non voglio certo sottostimare l’enorme sforzo che i soldati ucraini hanno messo nella difesa di Bakhmut – ha detto il segretario alla difesa USA Lloyd Austin – Ma penso che essa abbia un significato più simbolico che strategico”. Gli americani temono che impegnare così tante risorse su Bakhmut possa pregiudicare future offensive. La difesa di Bakhmut non darebbe poi particolari vantaggi nel bloccare la corsa russa verso Krematorsk e altre città dell’Est.

Una certa fibrillazione nei rapporti tra Washington e Kyev è scattata anche sulla questione delle esplosioni ai gasdotti Nord Stream. L’indagine dell’intelligence USA – fatta filtrare al New York Times – ha concluso che la responsabilità degli attentati deve essere attribuita a un “gruppo pro-Ucraina”. Le fonti dell’intelligence non hanno dato molti dettagli in più, anche se hanno affermato che Zelensky e il governo ucraino non sono coinvolti. L’inchiesta collide però clamorosamente con quanto sostenuto sinora dagli ucraini (e dai polacchi), secondo cui gli autori del sabotaggio fanno capo al Cremlino. Appare inoltre difficile che un’operazione di questo tipo possa essere stata organizzata da un gruppo qualsiasi, senza l’appoggio di strutture organizzative e di intelligence di uno stato nazionale. Indicare la responsabilità di un gruppo pro-Ucraina, pur negando un legame diretto con il governo di Zelensky, è comunque adombrare la possibilità che a Kyev sappiano più di quanto vogliono far credere. Con la rivelazione della sua intelligence, Washington mostra quindi agli ucraini un limite che non deve essere oltrepassato: quello di iniziative individuali, non concordate preventivamente con gli americani.

Sono stati del resto diversi gli episodi di eccessiva autonomia ucraina che hanno negli ultimi mesi indispettito Washington: dall’assassinio di Darya Dugina, la figlia di un giornalista ultra-nazionalista vicino a Putin (di cui la stessa intelligence USA, sia pure non ufficialmente, incolpa gli ucraini); agli attacchi di Kyev dentro il territorio russo, nelle regioni occidentali di Bryansk, Kursk e Belgorad, che gli Stati Uniti giudicano malissimo, perché rischiano di far precipitare il conflitto; fino alle continue rivendicazioni sulla Crimea, che gli ucraini dicono di voler riconquistare (prospettiva che a Washington giudicano del tutto irrealistica e foriera, anche questa, di un’esplosione ulteriore del conflitto). Anche a Kyev, del resto, si sono in questi mesi accumulati motivi di risentimento nei confronti dell’alleato americano. La ragione principale di dissidio riguarda ovviamente il rifiuto di Biden, almeno sinora, di inviare caccia militari e i missili a lungo raggio ATACMS. Più di recente, a suscitare l’irritazione ucraina, sono venute le pressioni del Pentagono per non inviare alla Corte penale internazionale dell’Aja presunte prove in possesso dell’intelligence USA di crimini di guerra russi. Il Pentagono teme che, in futuro, questa scelta possa mettere nei guai soldati americani impegnati in altre operazioni militari nel mondo. Kyev non ha però gradito che si sia persa l’occasione per inchiodare ulteriormente Mosca alle sue responsabilità.

A parole, nelle dichiarazioni ufficiali, l’alleanza non è quindi mai messa in discussione. La portavoce del National Security Council, Adrienne Watson, ha spiegato che la Casa Bianca “è in costante comunicazione con l’Ucraina, che noi sosteniamo completamente quanto a difesa della loro sovranità e della loro integrità territoriale”. Nei fatti, qualcosa sta però cambiando. I democratici si chiedono per quanto tempo ancora il Congresso dovrà votare piani di finanziamento della guerra. Ancora più nette le critiche dei repubblicani. Una parte – quella più vicina a Donald Trump – contesta apertamente l’entità dei massicci finanziamenti inviati a Kyev. Un’altra parte se la prende con l’amministrazione per la mancanza di una strategia sul lungo periodo. “Vogliamo tirare le cose per il lungo, che è poi quello che vuole Vladimir Putin? – si è chiesto qualche giorno fa il deputato repubblicano Michael McCaul, chairman della Commissione Esteri della Camera – Vogliamo dare agli ucraini il necessario per sopravvivere? Gli vogliamo dare gli strumenti per vincere? Esiste una strategia che conduca alla vittoria finale? E, se questa non c’è, che cosa stiamo facendo?”.

Sintomatico, della crescente freddezza repubblicana nei confronti della guerra, è stato il no che Kevin McCarthy, speaker della Camera, ha opposto proprio a Zelensky, che lo invitava a Kyev per “rendersi conto della situazione“. “Non ho bisogno di andare in Ucraina, per capire quello che sta succedendo”, ha detto McCarthy, che già nel passato aveva parlato della necessità di “non firmare un assegno in bianco agli ucraini”. Sono tutti segnali che arrivano dalla politica e che la Casa Bianca, soprattutto all’inizio della campagna presidenziale, non può sottovalutare. Segnali che mostrano che l’alleanza con Kyev è un po’ meno salda di un tempo. Segnali che rivelano una verità che, a Washington, appare ormai evidente a tutti. Gli Stati Uniti non possono finanziare, indefinitamente e a questi livelli, la guerra in Ucraina.

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