Sul finire di una stagione turistica invernale povera di neve come non mai, si è cominciato a parlare un po’ seriamente del futuro dell’industria dello sci e in particolare dei problemi legati all’innevamento artificiale. Sarà anche perché la crisi idrica è arrivata a un punto di non ritorno, sarà per i costi sempre più alti, soprattutto dell’energia, ma da più parti ci si comincia a chiedere se ha un senso buttare soldi pubblici e sprecare così l’acqua, in pieno allarme siccità, per mantenere innevate sempre meno giorni le piste di discesa di uno sport praticato ormai dal 2-3 per cento più ricco della popolazione europea.

L’Italia è il paese sciistico più dipendente, al 90 per cento, dalla neve artificiale. Lo sostiene un dossier appena presentato da Legambiente (il testo integrale è disponibile qui). In questo nuovo grande lavoro di ricerca che chiarisce dati alla mano l’urgenza di una riconversione del turismo invernale sciistico, va dato atto che ci sono anche decine di pagine sugli esempi di comportamenti virtuosi che si stanno manifestando in alcune valli dell’arco alpino italiano, a dimostrazione, se mai ve ne fosse bisogno, che cambiare si può.

Già all’inizio dell’anno erano stato ripresi dai mass media i dati storici allarmanti frutto di ricerche particolari, come quella basata sugli anelli di accrescimento delle piante di ginepro comune cresciute in quota e analizzate dai ricercatori dell’Università di Padova e del Cnr. Il problema è che ognuno vede quel che vuole vedere, anche senza arrivare agli estremi del Veneto, decisamente degni della macchietta del governatore Luca Zaia consegnataci da Maurizio Crozza, dove la Regione marcia spedita, come se niente fosse, non solo verso le follie olimpiche di Cortina per il 2026 (con il costo del solo impianto da bob ormai a 100 e rotti milioni!), ma anche verso i progetti di allestimento di un unico mega comprensorio nelle Dolomiti ampezzane, da 1300 km di piste e 500 impianti di risalita, oltre che alla riapertura dell’aeroporto di Cortina, a Fiames, dove già si vanvera di fare atterrare non solo gli elicotteri, ma anche fantomatici ‘droni elettrici per trasporto persone’, i cui costi immaginiamo che saranno alla portata di tutte le tasche.

In generale residenti, turisti e autorità hanno una percezione un po’ distorta di quanto sia notevole la riduzione a lungo termine della persistenza del manto nevoso. Nemmeno due inverni come gli ultimi, che nelle Alpi meridionali in media sono stati eccezionalmente senza neve seguiti poi da un’estrema siccità europea – per non dire di eventi simbolici come il crollo del ghiacciaio della Marmolada nelle Dolomiti – bastano a convincere tutti. Anche perché, a dire il vero, la particolare situazione meteorologica è un po’ ingannevole: per esempio, non si registra anche il ribasso nel record delle precipitazioni, ma anzi numerosi eventi in senso opposto (il 2001, il 1977 e il 1983 risultano il primo, il secondo e il quarto anno per record di nevicate nel mese di ottobre dal 1834).

La percezione del rischio da parte degli operatori del turismo invernale e dei decisori politici locali è stata già oggetto di ricerche in Austria, dove in una delle regioni più ricche, il Tirolo, comincia a farsi strada l’idea di porre un freno alla china attuale: è stata bloccata l’ipotesi di un nuovo Carosello tra due comprensori su ghiacciai limitrofi e per la prima volta sono stati raccolti dati allarmanti sull’incremento degli incidenti, e quindi dei costi sanitari, legati alla neve artificiale. Eppure, nel comparto turistico, dove pure si può parlare di consapevolezza crescente del cambiamento climatico, i ricercatori austriaci hanno fatto notare che l’atteggiamento prevalente di reazione si può suddividere in quattro categorie, non proprio esemplari: negazionisti infastiditi, pianificatori convinti, ottimisti ambivalenti, attendisti convinti.

Tutte le ricerche, peraltro, certificano che il riscaldamento globale ridurrà il potenziale di innevamento dato che temperature elevate, o anche solo umidità relativa alta, inibiscono la produzione di neve. Uno studio svizzero, calcolando che nelle Alpi la domanda idrica per i prossimi anni dovrebbe aumentare notevolmente dal 50 al 110 per cento, ha posto l’accento sullo scontro inevitabile che già si profila tra le esigenze dell’industria dello sci, per l’innevamento artificiale, e quello di altri settori come la produzione di energia idroelettrica, l’agricoltura e le infrastrutture turistiche stesse.

Un approfondimento specifico sul futuro dello ski resort Andermatt-Sedrun-Disentis, considerato in pratica il comprensorio europeo con un rischio meno alto, per la quantità media delle precipitazioni e per le temperature prevede che entro dieci anni ci sarà un conflitto per l’uso dell’acqua tra gli albergatori e gli impiantisti. Immaginate che cosa potrà succedere in Trentino Alto Adige, dove nella contesa per l’acqua peseranno affari colossali come la coltivazione delle mele (due milioni di tonnellate prodotte nel 2022) e non solo piscine, spa e alberghi di lusso come in Svizzera. E poi con i costi crescenti dell’innevamento artificiale, che partono dalla base attuale di 150mila euro a ettaro di pista, forse solo le province autonome più ricche di denaro e di risorse naturali, come quella di Bolzano, potranno permettersi di tenere in piedi il circo turistico dello sci così come lo conosciamo oggi.

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