di Stefania Rotondo

Nella commedia Donne al Parlamento, Aristofane immagina che un gruppo di donne ateniesi, stanche del governo e travestite da uomini, decidano di infiltrarsi nell’assemblea cittadina al posto dei mariti per far approvare un decreto che attribuisca loro tutti i poteri politici. E ci riescono. Le donne di Atene destituiscono gli uomini da ogni carica e prendono le redini del governo. Esse si dimostreranno all’altezza più dei loro mariti, e ginecocrazia e buon governo si riveleranno la definitiva abdicazione dell’uomo di fronte alla donna, sommergendo nel ridicolo la civiltà che è creazione degli uomini.

L’intento di Aristofane non fu quello di porre l’attenzione verso la partecipazione femminile alla politica (nel sistema di valori dell’autore l’idea di un governo di donne non poteva essere presa sul serio, tanto che il riso negli spettatori viene suscitato proprio per la realtà grottesca e paradossale di un governo di donne), bensì quello di denunciare la crisi della polis.

Donne al Parlamento fu scritta più di 2400 anni fa ed è più moderna che mai perché pone due problemi antichi come il mondo e ancora irrisolti: l’arte del buon governo e di una società che funzioni; il pregiudizio diffuso del politicamente corretto.

Anche gli uomini della commedia di Aristofane, dopo un’iniziale e diffusa perplessità, paiono convincersi dalla bontà del rovesciamento delle parti: “pare sia l’unica cosa che veramente non è successa nella nostra città”. La politica e la società odierne, basate su regole scritte da uomini con indosso guantoni da boxe, sono pronte per l’unica cosa che veramente non è successa nella nostra società? Lasciare perché la politica è brutale? Lasciare perché non si hanno abbastanza energie per rendere giustizia al proprio incarico? Lasciare per motivi personali, ponendo al centro la propria famiglia, la salute e progetti che appassionano? Lasciare perché si è consapevoli della certificazione del proprio fallimento, dei propri limiti?

Una dipendente di YouTube appena tornata dalla maternità tra sensi di colpa e inadeguatezza chiese consiglio al suo capo, la Ceo Susan Wojcicki, che le rispose: “Non devi essere grande in tutto, solo brava quanto basta”. Wojcicki è stata l’ennesima donna a lasciare i vertici di Big Tech negli ultimi anni, dopo Sheryl Standberg, Meg Whitman, Hewlett Packard e Ginni Rometty. Le aziende fanno le loro scelte ed è così che funziona la finanza, ma anche le donne hanno il diritto e soprattutto il dovere di farne. Queste donne con coraggio hanno scelto di lasciare non solo per il loro bene, ma anche per quello delle aziende per cui lavoravano, perché le cose andavano male, perché i ricavi erano in calo e il prezzo delle azioni crollava. Non è la loro audacia che deve meravigliare, ma le critiche feroci per le loro performance.

Scalpore maggiore hanno suscitato le dimissioni ravvicinate della prima ministra scozzese Nicole Sturgeon e della premier australiana Jacinda Ardern. Le motivazioni delle loro dimissioni sono simili: logoramento, stress, anche ragioni prettamente politiche, non nascondiamocelo. “Sono esausta” ha argomentato Ardern. “La politica è brutale” ha confessato Sturgeon.

Gogna mediatica anche per il ‘me ne vado’ della premier moldava Natalia Gavrilita e del primo ministro del Regno Unito Liz Truss, entrambe erose dalla instabilità economica internazionale. “Riconosco che non posso portare a termine il mandato per il quale sono stata eletta dal partito conservatore”. Con queste parole Truss annunciò mesi fa le sue dimissioni.

Questi gesti di abbandono, di dimissioni volontarie, ai quali poco siamo abituati, ci raccontano di quanto possano essere esemplari e funzionali alla società le scelte dei vertici apicali, quando si trasformano in atti rivoluzionari e salvifici. È arrivato il tempo che le donne dismettano le vesti da uomini per prendere e mantenere il potere e che trasformino il sistema al suo interno, rendendolo meno avido, consumistico e irragionevolmente accelerato.

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