“Il Consiglio di sicurezza ribadisce che le continue attività di insediamento israeliano stanno pericolosamente mettendo in pericolo la fattibilità della soluzione dei due stati basata sui confini del 1967”. Con una dichiarazione approvata all’unanimità il 20 febbraio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu esprime “profonda preoccupazione e sgomento” per la continua costruzione ed espansione degli insediamenti da parte di Israele nei territori palestinesi della Cisgiordania. Il Consiglio doveva però votare una bozza di risoluzione legalmente vincolante, redatta dagli Emirati Arabi Uniti insieme a funzionari dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che avrebbe chiesto a Israele di “cessare immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento nel territorio palestinese occupato”. Secondo quanto riportano organi di stampa statunitense, la risoluzione e il voto sono stati ritirati a causa delle pressioni del governo degli Stati Uniti, che ha promesso ai palestinesi un pacchetto di aiuti finanziari e una sospensione di sei mesi di qualsiasi azione unilaterale da parte di Israele. La risposta di Benjamin Netanyahu non si è però fatta attendere e, in un comunicato rilasciato dal suo ufficio, Bibi ha affermato che “la dichiarazione nega il diritto degli ebrei a vivere nella nostra patria storica” spiegando che “omette di menzionare gli attacchi terroristici palestinesi in cui sono stati uccisi israeliani nelle ultime settimane”, deplorando il sostegno degli Stati Uniti per la dichiarazione.

Il ruolo degli Usa e i colloqui segreti tra Palestina e Israele Nei giorni precedenti la riunione del Consiglio di sicurezza, l’amministrazione Biden ha cercato in tutti i modi di convincere la delegazione palestinese a cambiare le proprie richieste per evitare una potenziale crisi diplomatica nell’intera area del Medio Oriente. Gli Stati Uniti avrebbero infatti quasi certamente posto il veto su una risoluzione avente vincolo legale, optando quindi per la dichiarazione presidenziale, una soluzione più “simbolica” che effettiva, soprattutto per non scatenare controversie con i sostenitori della causa palestinese, in un momento in cui Washington cerca di ottenere il massimo sostegno internazionale contro la Russia per la sua guerra con l’Ucraina. La decisione dell’Anp non ha però convinto i palestinesi. Parlando ad Al Jazeera, il parlamentare palestinese Mustafa Barghouti ha affermato che la decisione dell’Autorità palestinese di ritirare il voto “va contro la lotta nazionale palestinese”. Intanto, secondo quanto rivela il sito d’informazione statunitense Axios, sono in corso da settimane interlocuzioni segrete tra Israele e l’ufficio presidenziale di Mahmoud Abbas per ridurre le tensioni in Cisgiordania. Nei giorni che hanno preceduto il giuramento del nuovo governo israeliano, il ministro palestinese per gli affari civili Hussein al-Sheikh ha infatti trasmesso un messaggio all’ufficio di Netanyahu attraverso l’amministrazione Biden esplicitando la volontà dell’Autorità palestinese di collaborare con il nuovo primo ministro. Netanyahu, da parte sua, ha nominato il consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi alla guida delle interlocuzioni segrete che nei giorni scorsi si sono concentrate sulla sospensione del voto in Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sempre secondo quanto riporta Axios non è però chiaro se tutti i leader dei partiti che fanno parte della coalizione di Netanyahu siano a conoscenza dei colloqui e dei loro contenuti.

Il ruolo dell’Ue e le relazioni con nuovo esecutivo israeliano La dichiarazione dal Consiglio di sicurezza fa eco a quella che il 14 febbraio i ministri degli esteri di Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti hanno rilasciato congiuntamente e nella quale esprimono “profondo turbamento per l’annuncio del governo israeliano in merito all’avanzamento di circa 10.000 unità di insediamento e all’intenzione di iniziare il processo di normalizzazione di nove avamposti” e al quale Israele ha risposto, per bocca del suo ministro degli esteri Eli Cohen, affermando che “non accetterà in nessun caso l’intervento dei paesi europei nella questione israelo-palestinese”. Intanto il nuovo esecutivo israeliano di estrema destra presieduto da Netanyahu porta avanti la sua agenda. Il 16 febbraio la Knesset, con una maggioranza di 94 voti favorevoli e 10 contrari, ha approvato una legge che rende più facile per le autorità israeliane revocare la cittadinanza e la residenza ai palestinesi imprigionati per “atti di terrore”. La nuova legge ne completa una che esiste già e che consente la revoca della cittadinanza e della residenza dei palestinesi in Israele e Gerusalemme sulla base di atti che costituiscono “una violazione della lealtà allo Stato di Israele”. “Una legge razzista e arbitraria che mette in pericolo e minaccia costantemente la cittadinanza e la residenza dei palestinesi”, ha commentato ad Al Jazeera Salam Irsheid, avvocato del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, che rappresentano circa il 20% della popolazione totale. Almeno altri 350mila palestinesi vivono a Gerusalemme Est, che Israele ha occupato e annesso illegalmente nel 1967.

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