“Credo non ci siano al mondo due come noi, sopravvissute al campo di sterminio di Auschwitz con una storia a lieto fine, ancora vive”. Tatiana Bucci, 85 anni, è la sorella di Andra, 83 anni, italiane di origine ebraica. La prima ora vive a Bruxelles, la seconda in California. Nei giorni scorsi Tati, così la chiamano tutti, è tornata dove fu costretta a sopravvivere dalla notte del 4 aprile 1944 al febbraio 1945, quando vennero liberate. Ha rimesso piede, ancora una volta, nell’inferno del Kinderblock, la baracca dei bambini destinati agli esperimenti del dottor Josef Mengele, insieme al nipote 18enne e a tanti giovani che ogni anno, grazie al ministero dell’Istruzione, hanno la possibilità di toccare con mano ciò che è stato l’Olocausto. Tatiana e Andra, non hanno alcuna intenzione di smettere di raccontare ciò che hanno vissuto; il 6 febbraio saranno a Crema, poi a Busto Arsizio. “Lo faccio – dice Tati a ilfattoquotidiano.it – per i migranti, per le donne perseguitate, per la libertà delle persone. Sento il dovere di parlare di Auschwitz finché sarò in grado”.

Qual è il momento della tua vita, dall’arresto in poi, che ti torna sempre in mente?
Quando mi capita di sentire il rumore di un treno vagone merci e vedere un camino torno con la mente a Birkenau. Per fortuna questo pensiero dura poco altrimenti impazzirei.

Il 28 marzo 1944, a seguito di una denuncia di un certo Plech (lui stesso ebreo), a quattro e sei anni, siete state catturate a Fiume, insieme alla madre, alla zia, al cugino Sergio e ad altri familiari. So che, nonostante fossi bambina e sia passato tanto tempo, ricordi ancora persino i particolari di quella sera.
Mi fa ancora molto male pensare a nonna Rosa inginocchiata davanti a quell’ufficiale con il cappotto lungo mentre lo supplica di lasciare liberi i bambini. Eravamo in otto della mia famiglia, in quel momento in casa: io, mia sorella, la nonna, zia Gisella, mio cugino Sergio, zio Jossi,e zia Sonia che era una sorella della mamma venuta da noi perché aveva perso il lavoro. Papà non c’era perché quando scoppiò la guerra era in Sudafrica nelle acque inglesi e resto lì fino alla fine del conflitto. Altri cinque della nostra famiglia si erano nascosti nella campagna vicentina ma anche loro furono arrestati, deportati forse con un ultimo convoglio partito dall’Italia verso il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Nessuno di loro ce la fece. Zio Aron morì dopo la Liberazione; mio cugino Silvio se ne andò tra le braccia della mamma che quando chiuse gli occhi disse “Finalmente”. Chissà cosa deve aver patito quel bambino perché sua madre dicesse quelle parole.

C’è una storia nel vostro cognome. Ce la racconti?
Mia mamma, Mira Perlow, ebrea, è nata in Ucraina, sono arrivati a Fiume nel 1910, per mettersi in salvo dai pogrom zaristi. Si integrarono senza problemi. Papà, era cattolico, e fecero un matrimonio misto ma fu costretto a cambiare cognome per non perdere il lavoro. Da Buccich diventammo Bucci.

Quella sera del 28 marzo siete state portate alla risiera di San Sabba, campo di concentramento nazista per gli ebrei e persino di sterminio per i prigionieri politici. Avevate capito cosa vi stava accadendo?
Ho un vago ricordo di una cella piccolissima in cui stavamo gli uni sopra altri. Noi bambini non capivamo ma nemmeno gli adulti compresero; abbiamo intuito qualcosa solo quando siamo arrivati a Birkenau sulla Judenrampe, nel corso della selezione fatta da Mengele. Quando giungemmo noi al campo non c’erano ancora i binari. I treni si fermavano fuori a circa 800 metri dalla torretta di Birkenau.

Non hai mai avuto bisogno di un supporto psicologico per rielaborare tutto quanto hai vissuto?
No. Mamma e papà erano persone semplici ma hanno saputo gestire la situazione. Quando nel 1946, tornammo in Italia, mia madre, sopravvissuta ci trovò grazie al comitato per i rifugiati ebrei di Londra e alla Croce Rossa Internazionale. Poi ci incontrammo con papà. Cominciava una nuova vita, la quarta dopo la prima nel campo di sterminio; la seconda dopo la liberazione in un orfanotrofio vicino a Praga dove imparai a parlare il ceco; la terza in Inghilterra a Lingfield, nella tenuta di sir Benjamin Drage, usata come centro per l’accoglienza di bambini orfani. Quando siamo tornate non parlavamo nemmeno più l’italiano. In campo usavamo il tedesco, in Inghilterra l’inglese. Siamo arrivate a casa e con mia madre ci rapportavamo con il tedesco perché lo conosceva prima di arrivare ad Auschwitz; con papà, si adoperava l’inglese, tra di noi il ceco. Non ci capiva nessuno. Era persino divertente per noi bambine.

Tu e Andra, a differenza ad esempio di Liliana Segre, avete scelto di tornare al campo di sterminio. Perché?
E’ molto difficile tornare; stavolta lo è stato più di altre perché c’era mio nipote 18enne. Ma continuerò a farlo. Rivivi tutto quando rimetti i piedi là dentro ma sono sicura che i ragazzi che ci accompagnano ci sono vicini. Lo capisco da come ci guardano e il loro sguardo è un invito a continuare quello che stiamo facendo. Sono sensibili. Sono più preparati di quanto noi possiamo pensare, più dei loro genitori.

Pensi che l’Olocausto, la Shoah, un giorno, possano essere dimenticati?
No. Non posso pensare che si scordi. E’ impossibile. Non dobbiamo. Quello che facciamo spero sia utile anche come insegnamento al mondo di oggi. Quando vedi i bambini che arrivano soli con i gommoni… mi torna in mente Alan. Non è possibile rifiutare. Non bisogna essere stati in un campo di concentramento per capire che l’accoglienza è umanità. Non si può paragonare all’Olocausto ma accadono cose incredibili: il Mediterraneo è una tomba.

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Nella foto in alto, da sinistra, Andra e Tatiana Bucci

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