Acciaierie d’Italia ha accumulato un nuovo maxi-debito per il gas. Dopo gli oltre 300 milioni di euro dovuti a Eni, una delle concause dell’interruzione della fornitura, la joint venture di ArcelorMittal e Invitalia che gestisce l’ex Ilva di Taranto non ha pagato anche Snam, con cui era scattata a settembre una fornitura di emergenza. E il rosso accumulato è mostruoso: “Abbiamo in questo momento un credito da 208 milioni“, ha dichiarato l’ad di Snam, Stefano Venier, dopo la presentazione del Piano Strategico 2022-2026 dell’azienda.

Cessato il contratto con Eni, Acciaierie d’Italia era finita in servizio di default assicurato da Snam, il cui azionista principale è Cdp Reti controllata a sua volta da Cassa depositi e prestiti, e non ha ancora trovato un fornitore per un nuovo contratto. Con l’ultima legge di Bilancio, il governo ha rifinanziato il fondo dedicato a questo servizio per 650 milioni di euro viste le numerose aziende in difficoltà. Alla luce delle cifre esposte dall’ad di Snam, l’ex Ilva – impianto energivoro per eccellenza – ha finito per essere un beneficiario record, avendo assorbito finora circa un terzo dell’intera capienza degli stanziamenti.

A metà dicembre Snam aveva in programma la “discatura”, un’operazione che avrebbe interrotto il flusso di gas verso gli impianti di Taranto ma che è poi stata bloccata. L’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, le ha infatti sospese fino al 31 gennaio ma è possibile che, sulla base dell’andamento dei prezzi, si proceda con proroghe di mese in mese. I 208 milioni fanno lievitare il totale delle posizioni debitorie di Acciaerie d’Italia, che ammonterebbero a circa 1,5 miliardi di euro secondo alcune stime. Oltre un terzo di questa cifra riguarda il gas.

Eni, come spiegato dal colosso dell’oil&gas nella relazione finanziaria allegata alla semestrale di giugno, al 30 giugno scorso, vantava “un credito commerciale per forniture di gas naturale” nei confronti dell’ex Ilva “dell’ammontare di circa 285 milioni, di cui 98 milioni scaduti e ulteriori 80 milioni in scadenza al 15 luglio”. L’ex Ilva, insomma, non aveva pagato le bollette e in quelle settimane reclamava “un allungamento delle dilazioni di pagamento”. Tutto ciò ha portato al mancato rinnovo del servizio a settembre, quando scadeva l’anno termico, e il passaggio di Acciaierie d’Italia al servizio di default di Snam.

Con circolante scarso e il maxi-debito nei confronti delle due aziende fornitrici di un elemento essenziale per la produzione dell’acciaio, tanto che Acciaierie d’Italia consuma da sola il 2% del totale del fabbisogno energetico italiano, si comprende facilmente l’importanza dei 680 milioni di euro che il governo Meloni ha concesso alla fabbrica con l’ultimo, il 14esimo, decreto Salva Ilva. Una nuova iniezione di denaro che in futuro potrà anche tradursi in aumento di capitale portando Invitalia a diventare socio di maggioranza di Acciaierie d’Italia, ma per ora serve a pagare i debiti accumulati e a evitare il fallimento.

Ma non solo. Il provvedimento voluto dal ministro Adolfo Urso prevede anche misure per neutralizzare le eventuali azioni della magistratura: tranne in casi esremi, gli impianti non potranno più essere sequestrati, ma i giudici dovranno nominare un commissario e lasciare che la produzione (e l’inquinamento) prosegua indisturbata. E infine, l’ultimo decreto Salva Ilva reintroduce lo scudo penale per i gestori della fabbrica: il salvacondotto ideato dal governo di Matteo Renzi, poi abolito da quello di Giuseppe Conte, è stato ripristinato per mettere a riparo i vertici della società dai procedimenti giudiziari. Un ritorno al passato che rischia di riaprire lo scontro tra governo e magistratura e finire nuovamente dinanzi alla Corte Costituzionale.

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