L’ultimo grido d’allarme è arrivato dall’indotto, senza tanti giri di parole: “Mancano le commesse in quanto lo stabilimento va via via spegnendosi. Di questo passo tutte le aziende presto potrebbero fermarsi”. La scia di cahiers de doléances su Acciaierie d’Italia si è arricchita la scorsa settimana, inglobando anche gli industriali tarantini. Da un lato lamentano di aver già “sostenuto” l’azienda allungando i termini dei pagamenti e dall’altro sostengono che gli “sforzi” non vengono premiati: “Non vediamo alcuna prospettiva”, hanno messo nero su bianco in attesa del saldo delle loro fatture. L’acciaieria di Taranto, già nel mirino dei sindacati per una sterminata sequela di azioni intraprese dal management pubblico-privato che oggi guida il primo produttore in Italia, sta affrontando l’ultima bufera, quella legata al caro energia che sta soffocando un settore energivoro come la siderurgia. Il rischio di allontanare il momento del rilancio è sempre più elevato, così il governo è dovuto intervenire con l’iniezione di 1 miliardo di euro per sostenere la cassa ed evitare l’aggravarsi della crisi di liquidità.

I ritardi con le bollette Eni
L’ad Lucia Morselli era stata chiara: “La carenza è quella del circolante, che non nasce adesso ma c’è da due anni, quindi siamo limitati nell’acquisto delle materie prime e della produzione via via da monte a valle. Noi vogliamo un’azienda con un futuro e per averla serve finanza visto il costo dell’energia”. La fotografia del momento vissuto da Acciaierie d’Italia – oggi controllata da ArcelorMittal e partecipata da Invitalia – è nitida nella relazione finanziaria allegata alla semestrale di un’altra azienda statale, Eni. Al 30 giugno scorso, il Cane a sei zampe vantava “un credito commerciale per forniture di gas naturale al cliente (…) dell’ammontare di circa 285 milioni, di cui 98 milioni scaduti e ulteriori 80 milioni in scadenza al 15 luglio”. L’ex Ilva, insomma, non ha pagato le bollette e “reclama, tra l’altro, un allungamento delle dilazioni di pagamento”, si leggeva sempre nei conti del colosso degli idrocarburi di cui aveva già parlato l’Huffington Post. Nessuna minaccia di ‘spegnere la luce’, come avvenuto nel 2014, quando Eni dichiarò di essere pronta a interrompere le forniture. Uno scenario che comporterebbe il blocco delle cokerie e l’azzeramento della produzione.

Fiom: “Taranto la realtà più preoccupante”
Il problema, per il momento, è stato tamponato con un’apposita garanzia da 300 milioni firmata da ArcelorMittal, aveva spiegato Morselli: “Senza questa, avremmo dovuto ridurre al minimo la produzione, a un livello solo per proteggere gli impianti”. Il quadro, visto il caro bollette, è destinato ad aggravarsi nei prossimi mesi. Lo testimoniano i trend del mercato dell’acciaio e l’evoluzione dei costi per produrlo. “A gennaio i costi energetici per la produzione di una tonnellata di acciaio in un altoforno era di 720 euro. Ad agosto ce ne volevano 845. Costi destinati ad aumentare, se non ci saranno interventi per calmierare i prezzi”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Gianni Venturi, responsabile nazionale siderurgia della Fiom-Cgil. “Quanto sta avvenendo e i problemi che l’ex Ilva si trascina dal passato più o meno recente rischiano di far peggiorare la situazione del gruppo. In un quadro problematico per tutto il settore, Acciaierie d’Italia è la realtà che ci preoccupa maggiormente”, sottolinea Venturi parlando di scenari “d’incertezza” per il mercato dell’acciaio nel prossimo trimestre e almeno in parte nel 2023.

E Mittal spegne gli altoforni in mezza Europa
Le mosse di ArcelorMittal in Europa raccontano bene il prossimo futuro. Il colosso che gestisce l’ex Ilva ha spento due altoforni in Francia, uno Polonia e fermato gli stabilimenti di Gijon e Brema, rispettivamente in Spagna e Germania, dove già nelle scorse settimane la produzione era concentrata in alcune fasce orarie. I forni elettrici, ha spiegato il direttore generale Roland Bastian, vengono sostanzialmente fermati nei momenti della giornata in cui il prezzo dell’energia è maggiore. Lo scenario è tutto fuorché favorevole, perché il mercato globale dell’acciaio – dopo un 2021 con richieste record – ha una domanda debole nello stesso momento in cui i costi per alimentare gli impianti sono schizzati. I prezzi del mercato Ue, tra l’altro, sono in aumento. Un fattore che ha spinto a un incremento delle importazioni e i produttori, compresa ArcelorMittal, si lamentano per il costo aggiuntivo imposto sulle emissioni di CO2. La marcia al minimo degli altoforni di Acciaierie d’Italia sembra un’ipotesi lontana, almeno per il momento, anche perché Taranto viaggia già a ritmo ridotto.

Il caso delle ferie diventate cassa integrazione
Però da mesi ormai l’azienda prova a tagliare tutto il tagliabile. Il ricorso alla cassa integrazione è massiccio da anni: dal 28 marzo il ricorso agli ammortizzatori riguarda 3mila dipendenti, di cui 2.500 a Taranto. E negli ultimi mesi i sindacati hanno più volte stigmatizzato l’uso che si sta facendo della trasformazione in cigo dei giorni di ferie. È avvenuto anche ad agosto, nonostante l’esposto presentato il 20 luglio dai sindacati all’Ispettorato territoriale del lavoro e all’Inps. Un perseverare che le segreterie nazionale di Fim, Fiom e Uilm hanno definito una “provocazione dal sapore di sfida al governo e alle istituzioni”. Acciaierie d’Italia “sta superando ogni limite”, hanno attaccato le sigle metalmeccaniche. Uno “scellerato modus operandi” che “prosegue indisturbato violando leggi e contratto”. In estate, sottolineano i sindacati, oltre alle ferie “sono stati trasformati in cassa integrazione anche i permessi legge 104, i riposi maturati in seguito alle turnazioni e per donazione sangue”. Uno “scempio di enorme vastità” di fronte al quale Fim, Fiom e Uilm parlano di “derisione” dei ministri Giancarlo Giorgetti e Andrea Orlando, chiedendosi perché il governo “rimanga inerme”.

Le attività “terzializzate”
Le lamentele dei sindacati nelle ultime settimane hanno riguardato anche alcune attività “terzializzate” e assunzioni “in contrasto con l’accordo” firmato il 6 settembre di quattro anni fa, quando venne perfezionato il passaggio ad ArcelorMittal. Nelle aree Parco calcare e Forni a calcare dell’impianto di Taranto, ha denunciato il coordinamento provinciale dell’Usb, mentre i dipendenti sono in cassa integrazione “vengono terzializzate” le attività. In sostanza, personale di esercizio e conduttori dei mezzi, nonché addetti alla manutenzione e tecnici specializzati sarebbero di “aziende esterne” che “applicano contratti capestro” e “lavorano in condizioni al limite, anche per la sicurezza”. Il tutto, ha sottolineato l’Unione sindacale di base, con le ditte esterne che “subiscono i ritardi nei pagamenti”. Una vicenda che rientrerebbe in un “progetto mirato”. Quale? I mezzi di lavoro non vengono né manutenuti né sostituiti e quindi, ormai usurati, non possono essere utilizzati: un modo per “giustificare – ad avviso dell’Usb – l’assegnazione delle attività a nuove ditte dell’appalto, che costano meno e che vengono pagate in ritardo”.

“A Genova assunti fuori bacino”
La Rsu della Fim-Cisl dell’impianto di Genova ha invece recentemente sostenuto che l’ex Ilva ha assunto personale “in contrasto con l’accordo di programma” firmato da ArcelorMittal il 6 settembre 2018: “Le risorse da impiegare in azienda andrebbero in primis cercate all’interno dello stabilimento e in seconda battuta nel bacino di lavoratori di Ilva in Amministrazione Straordinaria ancora in attesa di una proposta di assunzione”. Nel 2018 la multinazionale dell’acciaio si era infatti impegnata ad assumere tutti i lavoratori finiti in Ilva in As entro il 2023: “Al momento ce ne sono ancora 230, quindi non capiamo per quale motivo si debba procedere con assunzioni esterne”, denunciano i metalmeccanici Cisl, oltretutto mentre si fa un “utilizzo ancora troppo alto di cassa integrazione spesso programmata con criteri errati”. La palla sta per passare al prossimo governo, l’ottavo a ritrovarsi il dossier sulla scrivania da quando, dieci anni fa, iniziò il lento declino del gigante d’acciaio. Una crisi che non passa mai.

Twitter: @andtundo

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