di Sergio Prelato

Questa notizia mi ha colpito molto. Sono affetto da retinite pigmentosa, come molti di noi diagnosticata in modo definitivo a dieci anni, ma ne ero preda già prima.

Mi chiedo, pur nel rispetto del dolore e del terrore dei genitori, che si vedono ben tre figli ammalati, cosa mi fa riflettere in tutto ciò. Forse perché noi siamo in quattro: io e mio fratello con retinite, una sorella portatrice sana, una senza ereditarietà.

Mio padre operaio, mia madre donna di servizio presso famiglie ricche a Torino, una volta appresa la notizia della malattia hanno fatto quello che potevano, per me la cosa migliore. Mio padre ha continuato a lavorare come un matto alla Fiat, perdendo pure un occhio sul lavoro, oltre la salute in generale. Mia madre, dopo un breve tentativo di inserimento nel ’71 presso una scuola normale, su consiglio altrui ci iscrisse – prima mio fratello, poi io – dopo due anni all’istituto per ciechi di Torino.

Intanto si lavora, si va in collegio, da piccoli passavamo le estati fra Torre Pellice nel pinerolese e Acri in provincia di Cosenza. Mio padre sabaudo, mia madre meridionale, ci facevano girare come d’uso fra i parenti che allargavano le braccia delle loro famiglie e della disabilità visiva se ne infischiavano. Nipoti eravamo e tali venivamo trattati. Passavamo dalla bagna cauda ai cannelloni ripieni, dalla frittura dolce piemontese alla soppressata e alle melanzane cosentine. Mare e montagna.

In Piemonte niente televisione, i nonni ci portavano ai giardini valdesi, infatti Torre Pellice è terra valdese, ci compravano soldatini per le nostre battaglie sulla ghiaia del cortile, quanti ne abbiamo persi per la nostra cecaggine… Giocavamo con aerei di polistirolo, puntualmente finiti sui pini più alti e addio aerei. Un piccolo cinema in piazza che ricordo come un miraggio, film impensabili per dei bimbi. Messa domenicale, sulle giostrine dopo che mio fratello si ruppe il naso, i miei nonni non si sognarono neppure di limitarci le nostre incursioni nei giochi di ferro senza protezione, ci sorvegliavano solo un po’ di più per metterci in guardia in caso di pericolo.

Sento ancora il profumo del treno cento porte, l’incazzatura di mia madre quando ho lanciato una scarpa dal finestrino mentre mi accompagnava dai nonni sabaudi. Colori verdi delle vallate, il timbro della posta che confinava con la nostra camera da letto nella casa estiva dei nonni paterni. Il mercato coperto. Andare in bagno nel cortile con la turca, inesistente il bagno interno.

Poi si passava dal treno cento porte al treno del sud. Uno sopra l’altro, pacchi, viaggi pieni di rumore di ferraglia, e guai a voler andare in bagno con tutta la gente sdraiata nei corridoi, che non poteva permettersi la prenotazione e prendeva d’assalto i vagoni come veniva. Ma ci si passava il sedile a turno, si scambiavano panini all’olio, con il pomodoro, frutta. Più che viaggio in treno, per noi bimbi era un casino, un’avventura da Far West. Più di una volta mio padre mi ha sollevato verso il finestrino a mia madre, che correva a prendere i posti mentre il treno aveva appena raggiunto la banchina di Porta Nuova, giusto quelle quattro ore prima della partenza serale. Le stazioni notturne, piene di luci, passavano come alberi di Natale ad agosto. Il bigliettaio si guardava bene dal passare.

Quando arrivavamo a Paola per cambiare per Cosenza, una festa, come se avessimo superato una prova di resistenza alle ore infinite per arrivare, come al solito, in ritardo… altro che freccia rossa. La casa della nonna, l’acqua razionata nelle ore giornaliere più calde. I vari zii, molti ciechi anche loro, nelle loro belle case, con le tavole imbandite. Poi il mare di Acri, spiagge enormi, mare enorme, cielo enorme. Pasta fatta in casa, gnocchi e tagliatelle, corone di peperoncini rossi e verdi che ho imparato a sopportare da piccolo. L’estate era una baraonda, non sapevi più di chi eri figlio, eri un po’ di tutti.

Quando cadevamo qualche lacrima, un cerotto, un bacio e via verso altre cadute. Andavo anche nei cantieri con uno zio che installava ascensori per una ditta, la Shindler, che avrei conosciuto durante la carriera sulle barriere. Mia nonna vedova da anni, con la sua veste sempre scura, sembrava una madonna nera. Poi anche vacanze in Puglia da amici di fabbrica di mio padre, con figli di chi ci ospitava, con costruzione di aquiloni fatti volare fra i filari di ulivi e fichi, altro mare, altri cibi, altri odori.

Cari genitori, non affannatevi, vi prego, in un giro taumaturgico più che altro per voi; i vostri figli nonostante la perdita terribile, si spera il più graduale possibile, della vista non smetteranno di adorare il mondo. Ma non è attraverso la vostra angoscia che lo potranno fare, oppure attraverso i vostri occhi, ma attraverso la loro anima, attraverso la vostra guida amorevole, ma non come un ultimo viaggio.

La vista è una cosa meravigliosa e insostituibile. Ma la vita ha anche altri colori, sapori e avventure in serbo per i vostri figli, dovete solo asciugarvi le lacrime e crederci. Non si può ridurre tutto ad un anno, c’è una vita intera. Un giorno i vostri figli vi faranno vedere un mondo che non immaginavate neppure, e voi continuerete a raccontare il pezzo che vedrete per loro. Mi piacerebbe molto che leggeste queste righe.

Un abbraccio da un bimbo che continua a vedere la sua infanzia non come un lutto o attraverso la perdita di vista, ma una grande festa e qualche bernoccolo. Ogni tanto chiudete gli occhi e scoprirete che non vi passerà la voglia di vivere e cercare la vita.

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