di Margherita Zappatore

Qualche giorno fa è stato pubblicato sull’Internazionale il fumetto “La voragine” di Zerocalcare, in cui si racconta il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis per il reato di strage contro la sicurezza dello Stato. Al netto della vicenda giudiziaria di Cospito, senza dubbio meritevole di particolare approfondimento, il racconto ha il merito di portare all’attenzione un tema poco approfondito nel dibattito pubblico quale il carcere duro, inducendo il lettore a una riflessione sulle condizioni detentive.

“È accettabile che per una categoria il sistema giudiziario abbia solo il volto della vendetta?”. È questa la domanda dell’autore da cui è necessario partire. Ma andiamo con ordine.

Il “carcere duro” consiste in una forma di detenzione particolarmente gravosa riservata a coloro che hanno commesso un delitto di tipo mafioso o altri reati come terrorismo, eversione o riduzione in schiavitù. In tali casi, il detenuto sconta la pena in una camera singola, senza entrare in contatto con altri detenuti. Ha solo due ore d’aria al giorno e gli sono riservati i colloqui con i familiari solo una volta al mese, con un vetro divisorio e per un tempo limitato. Può detenere un numero limitato di oggetti, esclusi fotografie, quadri e tv. La corrispondenza epistolare è soggetta a censura e le letture, quando consentite, sono limitate a pochi libri o a risicate riviste acquistate esclusivamente tramite la direzione del carcere. A scontare la pena sotto questo regime, secondo i dati di Antigone risalenti al 2020, sono 298 detenuti, di cui 209 condannati all’ergastolo con sentenza definitiva.

Sebbene l’adozione di tali misure sia stata considerata legittima tanto dalla Corte costituzionale, più volte adita dai giudici di merito, quanto dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, non possono ritenersi peregrini i dubbi di legittimità costituzionale del regime del 41 bis rispetto al principio della rieducazione del condannato di cui all’articolo 27 in Costituzione. La rieducazione del condannato intesa nelle sue plurime accezioni di “reinserimento sociale”, “risocializzazione” e “recupero sociale” rappresenta la funzione principe della pena nel diritto positivo nostrano, costituzionalmente sancita all’art. 27 e l’essenza stessa della sanzione.

Pur condividendo la ratio della norma, nata all’indomani delle stragi di Capaci e via d’Amelio sulla spinta della consapevolezza che le normali condizioni detentive garantite ai detenuti fossero incapaci di limitarne la pericolosità sociale, non ci si può esimere dal chiedersi se un simile regime detentivo sia funzionale alla rieducazione del condannato. Isolare il detenuto precludendogli qualsivoglia contatto con l’altro è, già di per sé, un elemento ostativo alla rieducazione. Pertanto sono necessari ulteriori strumenti di reinserimento sociale. Tra questi, indefettibile, è il ruolo che la cultura può giocare. E qui veniamo al cuore della questione.

La rieducazione non deve prescindere dalla cultura. Un percorso di conoscenza, che richieda al detenuto l’adempimento di obblighi didattici quali, ad esempio, la lettura di grandi classici e la stesura di temi e racconti, potrebbe rappresentare un vero e proprio punto di svolta nella rieducazione del condannato verso la quale la pena deve essere sempre teleologicamente orientata. Un simile percorso, infatti, richiederebbe uno sforzo intellettivo non indifferente. Come i greci usavano mettere in scena le tragedie per ottenere una katarsis, una purificazione dell’anima, così anche il nostro ordinamento potrebbe raggiungere la risocializzazione per mezzo dell’arte, in tutte le sue forme.

Non si tratta di buoni propositi da lasciare nei cassetti, ma di impegni che le Istituzioni dovrebbero assumere tanto nei confronti degli ultimi quanto dell’intera comunità che, a causa del fenomeno delle “porte girevoli” legato alla recidiva, ha una spesa in termini economici – oltre che sociali e culturali – elevatissima.

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