Sin da piccole veniamo educate a costruirci la prevenzione da sole: non uscire di sera non accompagnata, controlla sempre se qualcuno ti sta seguendo, non rispondere male agli estranei che ti importunano, occhio a come ti vesti. E se è ovvio che non si può disquisire con i propri genitori di disuguaglianze di genere, sull’uscio della porta è altrettanto vero che tutti questi consigli sono inefficaci per prevenire una violenza essendo frutto dell’affetto e non di una reale consapevolezza.

Secondo gli ultimi dati Istat, infatti, la violenza colpisce le donne principalmente dentro casa o comunque per mano di familiari, ex o partner. I centri antiviolenza riportano l’attivazione di circa quindicimila percorsi di supporto a donne in relazioni violente, ma i numeri ufficiali – come spesso accade in questi casi – sono solo la punta dell’iceberg. Mentre gli omicidi diminuiscono di anno in anno, i femminicidi e le altre forme di abuso sulle donne restano una costante. “La casa è un ambiente sicuro solo per gli uomini”, scrive l’Istat, perché il 77% delle donne viene ucciso proprio tra le mura domestiche, dato peggiorato notevolmente durante l’emergenza Covid.

Perché non cominciare a costruire la prevenzione proprio da chi le case le abita sin da piccolo, allora? Parlare di violenza con i bambini non è mai facile. Da dove partire?

Educare al consenso. Quando si parla della sfera corporea, ciascuno di noi costruisce la propria zona di comfort decidendo cosa ci fa stare bene e cosa invece somiglia di più a una forzatura, a un disagio. Allo stesso modo, anche i più piccoli non devono essere costretti al “trattamento bambolotto” dispensando sorrisi e baci a chiunque li chieda, anche in momenti di tristezza o frustrazione. Rispettiamo i loro “no”, soprattutto quando coinvolgono lo spazio fisico e anche se si tratta di una richiesta tra pari.

Evitare l’uso della violenza verbale e fisica. La pedagogia contemporanea è universalmente concorde nell’affermare che un linguaggio o un comportamento violento hanno un’altissima probabilità di assimilazione e replica. Ciò significa che i bambini recepiranno un messaggio forte e chiaro: se urlo o se uso violenza posso ottenere ciò che voglio. Esattamente come fanno gli adulti. Si innesca un meccanismo traumatico difficile da spezzare, che segnerà le relazioni future del bambino.

Raccontare le storie giuste. Soprattutto nell’infanzia, i bambini e le bambine percepiscono un forte legame (di ammirazione e affetto) per i personaggi inventati, basti pensare alla febbre da Elsa principessa di ghiaccio o da Bing, il coniglietto in tutina rossa. Libri, cinema e tv ci consentono di spaziare tra milioni di storie, prendiamoci cura di questo compito, non lasciamo che i bambini fruiscano prodotti che non abbiamo supervisionato. Scegliamo film e libri in target con la fascia d’età che raccontino relazioni sane e rispettose o che facciano emergere le dinamiche ingiuste. Faranno la differenza nella costruzione del loro immaginario. Quello che molti definiscono “politicamente corretto” è più un semplice allargamento di orizzonti possibili utile alla crescita.

Equiparare le aspettative. Se ci aspettiamo che una bambina tenga ordinata la sua camera pretendiamo lo stesso da un suo coetaneo? Se crediamo che un bambino possa uscire vestito in modo sportivo manteniamo salda questa convinzione anche per le bimbe? Se diamo per scontato che una bambina possa giocare con le barbie concediamo la stessa libertà anche ai maschietti?

Di recente in libreria ho notato un episodio piuttosto deludente. Un bambino di circa sette o otto anni si avvicina a un mio libro, lo sfoglia, guarda le illustrazioni, legge la quarta. Quando si gira in cerca dell’approvazione dei genitori, il padre gli sussurra “non è un po’ da femmine questa copertina?” La sua reazione è stata di immediato ripiegamento: lo ha messo via e si è allontanato. Che schifo le cose da femmine, lasciamole a loro – ecco cosa quel padre ha scelto di comunicare. Mettere le distanze, i maschi su un livello, loro su un altro. Questi atteggiamenti, se reiterati, generano un disprezzo nei confronti del femminile che si riversa nei rapporti con le bambine.

Largo alle emozioni. L’emotività è un’etichetta che abbiamo appiccicato sulle donne come se i sentimenti fossero esclusivi di un genere. È necessario far sapere ai bambini – anche con l’esempio – che non devono soffocare le proprie frustrazioni in nome di un’innata forza maschile. “Dai, fai l’ometto”, “sei l’uomo di casa”, “cosa piangi a fare?”. Incoraggiamoli sin da piccoli a condividere rabbia, tristezza o stanchezza, a comunicare i propri bisogni e soprattutto ad argomentarli. Da dove arriva questo disagio? Cosa possiamo fare insieme per risolverlo? Come è meglio regolarsi da domani per non farsi sopraffare?

E poi ci sarebbe quell’altro piccolo step che farebbe davvero la differenza e di cui non mi stanco mai di parlare: l’educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole, che si concentri non solo sull’aspetto biologico – come purtroppo accade in molti Paesi europei – ma anche su quello sociale e psicologico.

Dichiarazioni istituzionali e tweet commossi oggi sembrano una gigantesca ipocrisia, perché non si può parlare seriamente di contrasto alla violenza di genere senza introdurre progetti nazionali – e finanziarli – dalla scuola dell’infanzia fino al diploma. Usiamo questa giornata per ricordare le vittime di femminicidio, ma ci dimentichiamo che la violenza si costruisce a poco a poco, spesso passa inosservata o peggio inascoltata. Si annida dietro comportamenti che giustifichiamo. E allora se la colpa è anche nostra, nostro è il compito di fare di più e meglio. Per tutte, vive e morte.

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