In occasione di ogni 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza alle donne, attiviste e attivisti spendono parole e le sprecano, a quanto pare.

Parole che smascherano la violenza maschile e le gerarchie di dominio e di potere che la alimentano, e denunciano la vittimizzazione delle sopravvissute alla violenza perpetuata nei tribunali italiani (che hanno collezionato in 5 anni, un medagliere ai disvalori della Giustizia italiana) insieme alle pessime narrazioni che i media fanno sulla violenza. Parole che si infrangono contro muri di gomma. Il 19 novembre a Verona, nel teatro Nuovo, si è svolto il Convegno La parola delle donne, organizzato da DiRe donne in rete per affrontare il problema della vittimizzazione istituzionale e quella che viene fatta sui media. Ma sono testimonianze che, a quanto pare, non trovano ascolto.

Nei giorni che precedono il 25 novembre come nei giorni che seguiranno, leggeremo ancora, sentenze e articoli che occultano la violenza maschile distorcendo la realtà di un fenomeno che produce crimini tra le mura domestiche, nei luoghi di lavoro o nelle strade. Le strategie di occultamento sono sempre le stesse: l’estetizzazione della violenza e la colpevolizzazione delle sopravvissute e di quelle che non sono sopravvissute.

Sui quotidiani locali e su quelli nazionali, saranno pubblicati articoli come questo che raccontano lo stupro come un errore della vittima invece che un crimine: “L’errore della ragazza è stato quello di accettare di recarsi nell’abitazione del giovane: lì il ragazzo l’ha aggredita e violentata nonostante le ripetute implorazioni di fermarsi della ragazza”. Cronisti che persistono a descrivere la violenza sessuale a partire dagli stereotipi che hanno appreso fin da bambini ascoltando le raccomandazioni date alle sorelle o alle amiche “non accettare caramelle da sconosciuti” anche se l’Istat ha rilevato che lo stupro viene commesso nella stragrande maggioranza dei casi, da uomini conosciuti, amici, fidanzati o parenti.

E leggeremo articoli come quello pubblicato domenica, su La Stampa, a firma di Patrizio Bati (uno pseudonimo ispirato, pare, al nome del serial killer di American Psycho) sui femminicidi di Marta Castano Torres e di altre due donne di cui non si conosce l’identità, avvenuti nell’ambito della prostituzione. Una narrazione che ha suscitato l’indignazione di molte attiviste, sia per la forma che per il contenuto e ha dato il via ad una mailbombing indirizzata al direttore Massimo Giannini, a cui ho partecipato. Comincerò dal commento che ha accompagnato la mia mail al direttore e che è stato pubblicato stamattina sul suo quotidiano insieme a quelli di altre donne: “Mi unisco alla mailbombing per lo sconcertante articolo di Bati che denota assenza di empatia per le vittime e deumanizzazione delle donne. Direttore, a voi uomini manca la coscienza di cosa sia la violenza contro le donne.”

L’articolo di Bati non è la denuncia di un fenomeno sociale ma una narrazione romanzata del femminicidio che si fa complice della deumanizzazione delle vittime verso le quali non c’è alcuna empatia. “Corpi senza identità, coscienti di essere solo questo. Schiave di organizzazioni criminali. Bambole riprodotte in serie, tutte con gli occhi a mandorla”. Oggetti ‘made in China’ eppoi ancora ‘Ombre cinesi proiettate sulle persiane’ così riga dopo riga, scrive una paccottiglia di paragoni tra le donne e le cose.

Il punto di vista di Bati non è quello di una denuncia sulla condizione di sfruttamento e violenza ma è pura compartecipazione allo sguardo che oggettifica. Lo stesso sguardo dell’uomo arrestato con l’accusa di averle assassinate. E come potrebbe essere diversamente se Bati stesso, si fregia con vanità viriloide, di aver conosciuto una delle vittime e di aver frequentato l’appartamento dove sono avvenuti i femminicidi? Il luogo dove le vittime venivano segregate e prostitute.

Quanta viscida ipocrisia e protervia autoassolutoria c’è in chi che è consapevole della condizione inumana di donne trattate come oggetti eppoi partecipa a creare quella condizione? Come denuncia la lettera di protesta inviata al direttore, è del tutto assente qualsiani assunzione di responsabilità sulla lucida scelta di recarsi in un luogo dove le donne erano segregate e ridotte a oggetti e costrette a subire rapporti sessuali vivendo nella paura. Esposte a stupri da parte chi in quella casa c’è andato una o venti volte.

L’articolo alla fine si riduce ad essere una pessima narrazione romanzata vouyerstica e pruriginosa sulla prostituzione e la violenza ad essa connessa. Bati parla delle “armi” usate delle vittime per tutelarsi da eventuali aggressioni e selezionare i cosiddetti clienti: telefono e conversazione, come se la necessità di difendersi fosse una potenziale offesa, “un’arma” contro i violenti. Eppure sono i violenti che fanno del loro sesso un’arma o si servono di pistole e coltelli come l’uomo che ha commesso i tre femminicidi ma su questo Bati tace e depone i paragoni.

Esiste l’urgenza di affrontare la questione maschile che riguarda gli uomini, tutti, compresi i direttori dei quotidiani che contribuiscono a mantenere lo stato delle cose, così com’è.

Infine mi suscita molta amarezza il ruolo ancillare delle donne quando corrono in difesa degli uomini “di casa”: figli, padri, mariti, colleghi, capi, compagni di partito eccetera, eccetera, ecccetera. Annalisa Cuzzocrea ha scritto un articolo funambolesco in difesa di Bati e del direttore de La Stampa, cucendo una toppa che era peggio del buco. Sarebbe stato meglio che avesse lasciato a Massimo Giannini l’onere di difesa dato che ha l’onore di dirigere una testata.

@nadiesdaa

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