Il sanguinoso attentato terroristico di domenica mattina nel centro di Istanbul mi pare con ogni evidenza una vendetta dell’Isis, organizzazione abbondantemente foraggiata e favorita in passato dal regime di Erdogan; oppure, ma questa ulteriore ipotesi non è necessariamente in contraddizione colla prima, un avvertimento di attori internazionali che vogliono la continuazione ad ogni costo della guerra in Ucraina e non vedono quindi bene il meritorio impegno turco per il negoziato tra Russia e Ucraina.

Del tutto inaccettabile appare invece la versione ufficiale che vorrebbe attribuire l’attentato al Pkk, che non compie attentati da oltre vent’anni, e alle Ypg che non hanno mai operato con modalità del genere. È vero invece che attentati terroristici rivendicati dall’Isis si sono avuti già in varie occasioni e che in molti casi sono stati funzionali alla strategia della tensione volta a consolidare il regime, colpendo soprattutto proprio le organizzazioni kurde e quelle turche solidali con loro. Tutti gli attentati avvenuti negli ultimi anni, compreso quello più sanguinoso del 1° gennaio 2017 al locale notturno di Besiktas, sono stati apertamente rivendicati da Isis.

Se quindi venisse confermata la versione ufficiosamente anticipata da una giornalista di Al Jazeera, significherebbe che il regime, a fronte delle difficoltà interne che sta attraversando e in procinto di scatenare nuove aggressioni verso Siria ed Iraq, nonché di mettere definitivamente fuorilegge il partito di sinistra Hdp, preferisce seguire la via consueta demonizzando il solito nemico interno, anche se riserva accenti insolitamente critici al governo statunitense.

La settimana scorsa ero stato ancora una volta in Turchia per seguire la fase finale del processo contro i dirigenti e alcuni membri dell’Associazione degli avvocati progressisti della Chd, processo che si trascina ormai da oltre sei anni attraverso varie fasi e che è terminato da poco. Si tratta di un processo eminentemente politico, fortemente voluto dal governo di Erdogan, che colpisce gli avvocati politicamente impegnati in quanto fautori di una giustizia al servizio delle classi popolari e disagiate.

Come scritto nel documento firmato da decine e decine di associazioni forensi di tutta Europa, “i processi contro gli avvocati della Chd sono parte di un più ampio schema di attacco agli avvocati, che li identifica coi loro clienti. Gli avvocati sono ingiustamente criminalizzati e perseguitati perché adempiono ai loro doveri professionali. Ciò risulta intollerante e in chiara violazione del diritto internazionale. Gli standard internazionali relativi al giusto processo non vengono rispettati nelle udienze finora osservate. Pertanto chiediamo l’immediata liberazione degli avvocati imprigionati per aver lavorato su casi provvisti di rilievo politico. Fare l’avvocato non deve essere un crimine. Continueremo ad insistere per porre fine alla criminalizzazione del mero esercizio della professione forense e a sostenere i principi fondamentali dello Stato di diritto, compreso il diritto al giusto processo per tutti in Turchia come nel resto del mondo”.

Le accuse di partecipazione ad associazione terroristica mosse nei confronti degli avvocati della Chd appaiono invero prive di ogni fondamento. Le inconsistenti prove a carico consistono in alcuni misteriosi files che sarebbero stati reperiti dai servizi turchi in Olanda e successivamente moltiplicati e interpolati e in testimonianze inaffidabili e vaghe, mentre sono state dichiarate inammissibili numerose testimonianze a favore degli imputati. Atti in sé insignificanti, come la partecipazione ai funerali di un terrorista, vengono addotti come prove di affiliazione all’organizzazione di cui questi faceva parte.

Un altro tratto peculiare di questo processo è poi costituito dall’avvicendamento di numerosi giudici, prontamente sostituiti al minimo accenno di disobbedienza alle direttive governative. Non c’erano pertanto grosse illusioni sul contenuto del verdetto giunto venerdì 11 novembre. E purtroppo sì è avuto un aumento delle pesanti pene detentive inflitte a, tra gli altri, il presidente della Chd, Selcuk Kozagacli, e a Barkin Timtik, sorella di Ebru, morta a seguito dello sciopero della fame di cui si era resa protagonista in carcere per protestare contro le violazioni del principio del giusto processo. Colpisce il particolare accanimento dei giudici contro quest’ultima, condannata alla pena più pesante, vent’anni di carcere.

Erdogan ha visto una crescita del suo ruolo internazionale e ha saputo anche svolgere un ruolo per certi versi positivo riguardo al conflitto ucraino. Ma la crisi economica che da tempo colpisce la Turchia anche come effetto delle sue politiche di grandeur ed espansionismo militare ne sta riducendo la popolarità. La palese assenza di legalità e controllo democratico costituiscono il brodo di coltura per ogni genere di complotti e di misfatti, come si è visto con l’attentato di Istiklal Caddesi.

Occorre quindi chiedere con forza che il suo governo sia conforme ai principi fondamentali dello Stato di diritto (indipendenza della magistratura, ruolo direttivo del Parlamento, garanzia della funzione fondamentale degli avvocati, ecc.) e ricerchi una soluzione pacifica dei conflitti di cui la stessa Turchia è direttamente protagonista, a cominciare da quelli colle organizzazioni kurde.

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