di Gianluca Pinto

Nel 2015 in Canada è stato dichiarato incostituzionale il divieto del suicidio assistito nel Paese ed è stata emanata una legge (2015) che consentiva l’eutanasia a chi soffre di una malattia terminale la cui morte naturale era “ragionevolmente prevedibile”.

L’anno scorso con un disegno di legge è stato abrogato il requisito del “ragionevolmente prevedibile” e quello delle condizioni “terminali”. I fenomeni che si sono visti successivamente al disegno di legge (e, al solito, strumentalizzati dai movimenti conservatori a livello internazionale) fanno aprire molti interrogativi, oltre a quelli classici in merito all’eutanasia in generale: esempio emblematico è quello di una donna che ha posto fine alla sua esistenza perché non ha avuto la possibilità di accedere ad alloggi idonei alle sue condizioni di salute a prezzi accessibili e il sussidio di cui disponeva non le permetteva di pagarli.

La questione su cui a questo punto è importante ragionare, a mio avviso, non è più di carattere ‘etico’ oppure ‘politico’ (quest’ultimo quando meramente inteso come scontro tra conservatori e non), ma di carattere socio-economico-politico.

Riguardo questo disegno di legge, infatti, non si tratta più di legiferare sul diritto (secondo il mio parere personale assolutamente giusto e indiscutibile) di porre fine alle proprie sofferenze dovute ad un male inguaribile o ad una situazione immutabile e tesa irrimediabilmente ad una fine dolorosa dovute a questioni di salute (ivi incluse quelle mentali) irrisolvibili.

Qui si tratta di aver creato, tramite una scelta legislativa, uno spazio di ambiguità evidente (o quasi di equivalenza, potrebbe sembrare) tra le situazioni, dovute alla salute, di sofferenza immutabile e irreversibile e le situazioni, sempre dovute alla salute, di sofferenza che non sono immutabili, non sono mortali, non sono irreversibili, ma con le quali la possibilità di una dignitosa convivenza dipende esclusivamente dalle condizioni economiche della persona.

Siamo di fronte dunque, anche se implicitamente e non formalmente, ad una sostanziale traslazione dell’immutabilità degli effetti di una dolorosissima e insopportabile malattia terminale a quelli della povertà che diviene anch’essa stessa immutabile, terminale, dolorosa e insopportabile, e così i suoi effetti sulla persona.

Tali condizioni di povertà di molte persone (dobbiamo ricordarlo altrimenti si perde il senso delle cose) sono dovute esclusivamente alla scelta umana di un modello economico che abbandona sempre più individui nella povertà assoluta, e non ad una questione (naturale) irrimediabile di salute.

Lo Stato canadese ha sancito che in caso di povertà e di impossibilità economica di gestire i propri disagi o le proprie patologie non esiste altra soluzione che dare un aiuto a toglierci di mezzo; non, quindi, una riflessione sulla redistribuzione della ricchezza, sulla ricchezza smodata di troppo pochi a scapito dell’indigenza di troppi, sull’inclusione economica, sul rientro da un modello dove il denaro è usato come strumento di selezione naturale.

No, questo è impensabile, questo modello è una scelta irrevocabile, è un destino immutabile non alterabile del genere umano, come fosse un terremoto o una catastrofe naturale su cui l’uomo non ha potere; il massimo che io “Stato” posso fare è pagarti il suicidio, dato che sei sei inadeguato alla società capitalistica (e sei un costo).

Dal diritto a porre fine ad una vita di dolore e di condizioni insopportabili dal punto di vista della salute si è passati ad una negazione in pectore del diritto di sopravvivere per chi è in condizioni di disagio economico.

Il capitalismo sta cominciando a dirci: guarda che se sei povero resterai tale, questo è; se soffri troppo, ti posso al massimo concedere un aiuto per sparire.

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